INTERVISTA
A ROBERT PERONI
“La mia
vita tra gli Inuit: ho esplorato il mondo ma adesso sono pentito”
di
Giampaolo Visetti - La Repubblica
BOLZANO – «Ho
dedicato la mia prima vita all’alpinismo estremo, all’esplorazione dei deserti
africani e dei ghiacci polari. Ora, anche per me, è il momento di dire la
verità: sono pentito. Ho concesso tanto tempo a rincorrere primati personali,
dimenticandomi delle persone».
Robert
Peroni ha 81 anni e da
45 vive a Tasiilaq, sulla costa orientale della
Groenlandia. È stato l’immagine di punta del team “No Limits”, spingendo ogni
volta l’idea di avventura un passo più in là. La sospensione invernale dei voli
dall’Europa lo ha spinto a ritornare per qualche giorno dove è nato,
sull’altopiano del Renon, in Alto Adige. Ad accoglierlo, I sette tramonti,
il libro in cui racconta la sua vita tra gli inuit, «il popolo che mi ha
salvato quando mi sono sentito perduto».
Perché si
definisce un “ex alpinista e un ex esploratore pentito”?
«Perché da
oltre un secolo sono concetti privi di significato, immagine del nulla. Si
tengono in vita idee estinte. È ora di aprire una riflessione sincera sul senso
e sull’impatto delle cosiddette imprese».
Cosa
intende dire?
«Esaltiamo
finti exploit e spedizioni che non possono aggiungere qualcosa alla conoscenza
del mondo. Per interessi commerciali si certifica una falsa realtà. I
riflettori sono accesi sui protagonisti del nostro film, spenti sul contesto di
una storia che appartiene ad altri. È tempo di fermarsi e di ascoltare chi
viene sacrificato per un’immagine pubblicitaria».
Qual è la
lezione del popolo con cui vive da quasi mezzo secolo?
«Rallentare e
aspettare. La parola fondamentale è “forse”: gli inuit sanno che nulla è
sicuro. Noi, schiacciati da una fretta misteriosa, imponiamo certezze in cui
non crediamo. Per questo, consegnandoci all’aggressività, ci siamo persi».
Quali
sarebbero le colpe di alpinisti, esploratori, navigatori e avventurieri?
«Ci siamo
prestati alla globalizzazione di un falso eroismo, accettando di diventare gli
impiegati di una colonizzazione soft, fondata sui nazionalismi delle bandiere.
Il prezzo, dall’Himalaya alla Groenlandia e dal Sahara all’oceano Pacifico, è
stato la vita della gente del posto. Credo che sia nostro dovere cambiare e
chiedere scusa».
Scusa di
cosa?
«Siamo entrati
in casa d’altri facendo cose incomprensibili e ridicole. Nei luoghi estremi
ogni azione è dettata dalla sopravvivenza. Noi, rischiando la vita per
diventare famosi, facciamo l’opposto. Il contagio della vanità eletta a cultura
è devastante: le persone delle terre originarie, per colpa nostra, si lasciano
morire».
Nel suo
caso è successo il contrario, sono gli inuit ad averla salvata: come?
«Mi hanno
insegnato a vivere in modo diverso. L’importante non era più conquistare una
vetta, ma un cuore. Nessuno me l’ha mai detto, me l’hanno fatto vedere».
Perché,
all’apice del successo, lei si è rifugiato in un luogo ignoto e tra gente
sconosciuta?
«Non ho più
voluto vivere per raccontare imprese vuote, pretese dal format degli sponsor.
Tornavo e dovevo raccontare esperienze estranee alla mia vita. È un disagio
condiviso con molti amici famosi, prigionieri del personaggio costruito da
altri. L’avventura, senza verità, non regge più».
A Tasiilaq la sua Casa Rossa ha portato il turismo: non ha
promosso un’altra forma di colonizzazione?
«Forse ho
sbagliato, ma ho dovuto essere realista. Gli inuit avevano fame ed erano soli.
Mi hanno chiesto aiuto: portare amici, soldi, ciò che il resto del mondo cerca.
Non ho avuto scelta, ho dovuto fare qualcosa. La sfida non è promuovere il
turismo, ma resistere grazie a un’accoglienza sincera».
Non è,
anche questa, una declinazione del complesso di superiorità occidentale?
«Abbiamo
criminalizzato chi cacciava solo per mangiare. Il risultato è che non ci sono
più animali. Per vivere sul ghiaccio ora servono gli estranei. Non si lotta più
per salvare la natura, ma per preservare la specie umana sul pianeta«.
È ancora possibile?
«In parte
della Groenlandia è troppo tardi. La costa occidentale è già perduta: navi da
crociera, hotel da dieci piani, tre aeroporti. I turisti si fermano due ore,
fanno la foto con un orso bianco e vanno via. Guardo Nuuk e vedo Venezia, o
Kathmandu: la fine di una lunga storia. Non possiamo però spiegare sempre agli
altri cosa devono fare. Tocca agli inuit scegliere, non a noi: e anche la morte
deve essere una scelta libera».
Gli Stati
Uniti di Trump, come già in passato, vogliono “comprare” la Groenlandia: cosa
ne pensano gli inuit?
«Sono 60 mila,
dispersi sul ghiaccio dell’isola più grande della terra. Dicono che Trump è un
pagliaccio di passaggio: ma se regala 10 mila dollari
a testa pensano sia scortese non accettare un regalo. Nella loro lingua la
parola futuro non esiste: ogni giorno, senza un miracolo, è l’ultimo».
Prevale la
paura o la speranza?
«Il punto
cruciale è la libertà. Gli inuit hanno solo quella. Per secoli ogni famiglia,
per sentirsi libera, ha scavato la propria buca a chilometri dal nucleo più
vicino. Loro, come noi, sentono che oggi la sfida comune è la libertà. Se si
accetta che qualcuno la perda, nessuno la conserva».
Le mire
polari, non solo statunitensi e connesse allo sfruttamento di materie prime e
rotte commerciali, sono conseguenza del surriscaldamento del clima: per
Groenlandia e inuit è la fine?
«Il ghiacciaio
che occupava il fiordo di Sermilik, in due decenni,
si è ritirato di 30 chilometri. L’emergenza non è l’aria meno fredda, ma il
mare più caldo. Lo strato di ghiaccio, da un metro e mezzo, si è ridotto a 50
centimetri. Pesci, balene e foche vanno lontano: senza cibo la gente deve
scoprire un altro modo di vivere. La campana suona anche per noi: la riserva
mondiale di acqua dolce si sta esaurendo».
Vuole dire
che è la sopravvivenza l’avventura del presente?
«In passato
l’avventura di ognuno è stata fare qualcosa da cui nessuno avrebbe potuto
salvarci. Oggi è, ogni giorno, scegliere di andare avanti con gli altri. Il
problema è che ci siamo reciprocamente delusi, l’ammirazione è un ricordo
lontano».
Cosa resta
di Robert Peroni, primo uomo bianco ad aver attraversato a piedi la
Groenlandia?
«Rimane la
Casa Rossa. Un rifugio, il segnale che si può costruire qualcosa con le proprie
mani e poi passarlo ad altri. Sopravvivere, anche a Tasiilaq,
resta possibile: a patto di non accanirsi, di capire quando è il momento di
andarsene da soli sul ghiacciaio amato da bambini, per fare posto a chi sta per
arrivare».
***
(Giampaolo
Visetti www.repubblica.it)