ALTRO CHE EPOPEA DEL WEST

 

Le chiamavano 'brigantesse'. La vera storia delle protagoniste della nuova serie realizzata da Netflix  

di Paolo Speranza

 

Bella, altera, con uno sguardo diffidentema al tempo stesso disinvolto di fronte all'obiettivo del fotografo. Perfettamente a suo agio nell'impugnare le armi: una pistola stretta nella mano destra e un moschetto nell'altra. E soprattutto di un'eleganza fiera, quasi selvaggia ma assolutamente naturale, di quelle che anche le più celebri mannequin raggiungono solo dopo anni di esercizi e di pose.

 

Non a caso Michelina Di Cesare, la "brigantessa" di Mignano, in provincia di Caserta, ha conquistato da alcuni anni a questa parte più cover di una star hollywoodiana. Ed è strano, a pensarci, che il cinema Usa (quello italiano non ne ha il coraggio, i mezzi, la caratura epica) non abbia ancora progettato un kolossal dalla sua biografia.

 

UNA CORAGGIOSA "BAD GIRL"

Altro che epopea del West, dove di "pistolere" - ad eccezione di Calamity Jane - non c'è traccia: qui siamo in presenza di una guerrigliera coraggiosa e decisa, rispettata dai suoi compagni d'avventura e temuta dai soldati della Guardia Nazionale e dell'esercito piemontese. Le biografie ce la descrivono fin da ragazza con un carattere trasgressivo e irrequieto, un'autentica "bad girl", molto più concreta ed affascinante delle pallide imitazioni (con tutto il rispetto per i personaggi interpretati dalle varie Sharon Stone, Salma Hayek, Jennifer Lopez) made in Hollywood

 

La sua storia è da copione di sicuro successo: nata nel 1841 da contadini analfabeti, vedova a soli 21 anni, nel 1863 diventa l'amante del capobanda Francesco Guerra e ben presto anche il suo luogotenente, capace di imporre regole e direttive agli altri gruppi di briganti che infestavano la Terra di Lavoro, fino alla Valle Caudina, fedeli ad una secolare tradizione di banditismo "comune" più che alla dimensione "politica" del brigantaggio postunitario in Basilicata e nelle zone interne dell'ex Regno delle Due Sicilie. Michelina e la sua banda tengono in scacco la legge per ben sei anni, fino all'epilogo fatale, degno di un grande romanzo d'avventura: tradita dal fratello Giovanni, suo complice fin dall'infanzia di furti e rapine, ora attirato dalla ricca taglia che pendeva sul capo di Michelina, la Di Cesare sfugge abilmente ad un primo tentativo di cattura da parte dell'esercito, ma il 30 agosto del 1868 la sua banda è accerchiata sul monte Morrone e la terribile brigantessa muore in combattimento, non ancora ventisettenne, accanto al Guerra ed a quasi tutta la banda.

 

CERVINARA, TERRA DI BRIGANTESSE

Nello stesso 1868, per una di quelle coincidenze che rendono ancor più intriganti certe storie, si diede alla macchia una giovane di Cervinara, Carolina Casale, arruolata nella stessa banda Pace-Ciccone di cui faceva parte da due anni la compaesana Giocondina Marino. Due carbonaie (attività molto diffusa sui monti del Taburno) molto giovani, 24enne la prima e di due anni più piccola la seconda, che alla vita dura e spietata dei briganti approdarono non per scelta ma per costrizione, in circostanze analoghe, adattandosi tuttavia ben presto e con risultati imprevisti alla nuova condizione. Giocondina divenne addirittura una capobanda, amante e complice del temutissimo Alessandro Pace, che l'aveva rapita ventenne, raggiunta dal fratello Michele, altrettanto pericoloso e spietato. Meno brillante di Michelina Di Cesare, e tutt'altro che bella, la Marino poteva contare tuttavia su una ferrea determinazione, che rivelò sia nelle imprese criminali (che nulla più, ormai, avevano a che fare con le nostalgie filoborboniche) sia nei ripetuti scontri a fuoco con l'esercito regolare.

La "carriera" della Marino e della Casale si concluse lo stesso giorno, con l'arresto della banda l'11 marzo del 1868. Ben diverse furono però le condanne, proporzionate all'effettivo grado gerarchico: Giocondina a diciassette anni di lavori forzati, poco più di un anno di detenzione invece per Carolina, per non aver mai partecipato direttamente a sequestri di persona, rapine e omicidi.

 

FIGURE DA ROMANZO: LE “DRUDE” DEL CAPO

Druda, ossia amante, o, per dirla con più eleganza, "partner" del capobanda o di uno dei briganti più in vista: era questa una delle condizioni più frequenti delle "brigantesse", che in qualche misura anticipa certe caratteristiche del terrorismo politico degli anni '70.

Amore e morte è un binomio frequente nella storia terribile e sempre intrigante delle brigantesse, le donne – quasi sempre giovanissime, e di estrazione contadina – che, spesso costrette con la forza e in qualche caso per necessità o per libera scelta, si unirono ai fuorilegge che si opponevano con le armi al nuovo Stato unitario e all’esercito piemontese nonchè – circostanza troppo facilmente trascurata – ai “galantuomini” dei loro paesi, in molti casi non meno violenti e retrivi dei briganti.

 

Una conferma autorevole e non sospetta di questa componente notevole di affetto ed erotismo nella durissima esistenza delle brigantesse giunge non tanto dalla mole di recenti pubblicazioni per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia (molte delle quali piuttosto superficiali e pseudo o tardo-merdionaliste) ma da alcuni osservatori e cronisti del tempo o dei decenni immediatamente successivi, soprattutto da quegli autori che nei confronti del brigantaggio postunitario non rivelano alcuna forma di comprensione o di accondiscendenza.

E’ il caso, ad esempio, di Cesare Cesari, che nel 1920 pubblicò un testo fondamentale e prezioso (benchè di natura apologetica, secondo il pensiero dominante di allora, rispetto alla monarchia sabauda) dal titolo Il brigantaggio e l’opera dell’esercito italiano dal 1860 al 1870, che uno spazio significativo riservava alla brigantesse.

 

“Romanzi d’amore e di morte – scrive Cesari - non erano infrequenti, ma mentre nei primi tempi del brigantaggio raramente accadeva d’incontrare una donna se non come manutengola, verso la fine del 1863 e il principio del 1864 si iniziò anche il periodo delle brigantesse. Queste apparizioni si ebbero quindi nel momento in cui cominciava a scemare la reazione politica e subentrava un’epoca di vero e proprio malandrinaggio. Ogni capo banda aveva generalmente con la moglie o una amante, quasi sempre arditissima, e che nella immaginazione popolare diveniva un’eroina anche quando le sue gesta non erano molto diverse da quelle di ogni volgare malfattrice”.

 

I monti e le campagne del Sannio, dell’Irpinia, della Valle Caudina diventarono da subito lo scenario di molte imprese guerresche e delle più intense storie d’amore nel mondo brigantesco. Una delle più memorabili, riportate dal Cesari, avvenne nel territorio di Lacedonia:

Una di queste, rimasta famosa – scrive lo storico - si chiamava Filomena e fu l’amante del capo banda Dilena, che infestava le campagne di Lacedonia. Sorpresa una notte dai soldati della 4° compagnia del 46° in una masseria detta il Casone Ricciardi nel bosco di Serrone, si difese come uno dei più feroci banditi, fino a che legata e tradotta a Lacedonia, veniva deferita al tribunale di Avellino e condannata ai lavori forzati, mentre il Dilena, arrestato durante il conflitto, fu senz’altro fucilato”.

 

IMPRESE E AMORI DI FILOMENA PENNACCHIO

Un’altra irpina, omonima della sventurata “druda” di Dilena (o, più probabilmente, Tilena), fu la protagonista della storia d’amore più celebre e struggente: Filomena Pennacchio, figura principale della serie Briganti, tra poco in onda su Netflix.

Una celebre copertina dell'"Emporio pittoresco" del 1865, col titolo Tre brigantesse, la immortalò con altre due celebri drude: "la prima a destra -  scrive il settimanale - è l'amante di Sacchitiello, quella in mezzo di Schiavone, e l'ultima sdraiata di Crocco". All'anagrafe: Giuseppina Vitale, di Bisaccia; la Pennacchio, nata a S.Sossio Baronia; e la Tito, originaria di Ruvo del Monte.

 

"Quando si pensa alle tante e terribili atrocità - commenta l'anonimo giornalista - commesse da quelle tre jene, sembra quasi impossibile che individui tanto sanguinari e feroci potessero avere un'amante, capace di dividere con essi i loro delitti, le loro opere nefande. Eppure, tempo addietro, voi le avreste vedute scorazzare, in groppa ai cavalli, la campagna, portando dovunque lo spavento e la morte".

 

Quale contrasto con l'immagine neoromantica e intrigante delle compagne dei vari Crocco e Ninco Nanco nel film Li chiamarono briganti!

Al di là delle opposte enfatizzazioni, un nucleo di verità vi è in entrambi i profili.

 

Gli studi più recenti ed il film di Pasquale Squitieri ci ricordano che la vita irregolare e clandestina rappresentò talvolta una scelta di affermazione di e di ribellione da parte di giovani donne che avevano alle spalle una vita di miseria e, spesso, di umiliazioni e violenze, come quelle presumibilmente subìte da Filomena Pennacchio, giovanissima e povera bracciante al servizio dei signorotti locali. Altrettanto indubitabile, alla luce dei documenti d'archivio, è la ferocia che molte brigantesse condivisero con i loro sodali, pur senza giungere ai livelli della calabrese Maria Giuseppina Oliverio, la leggendaria Ciccilla, l'unica condannata all'ergastolo.

 

Di Giuseppina Vitale, che aveva seguito per amore, a vent'anni, l'ex caporale borbonico Agostino Sacchitiello sulla strada del brigantaggio, le cronache riferiscono di sequestri di persona, scontri armati contro la forza pubblica e una partecipazione attiva alla strage di venticinque bersaglieri, accerchiati da 160 briganti, nella masseria Monterosso, tra Lacedonia e l'odierna Aquilonia. A tradirla, e farla arrestare col suo "caporal Agostino", fu proprio Filomena Pennacchio, sua coetanea e compagna di tante imprese temerarie.

 

Si concluse così, da delatrice e "pentita", la vita da brigantessa di rango della druda di Giuseppe Schiavone. Una donna rispettata e anche molto corteggiata, tra gli altri dallo stesso Crocco, per i suoi tratti fisici ("carnagione olivastra, occhi scintillanti, chioma nera e cresputa, ciglia folte, naso aquilino, labbra prominenti, profilo greco", la descrive Maurizio Restivo nel libro Ritratti di brigantesse) oggi piuttosto demodè ma senza dubbio attraenti per i canoni dell'epoca.

 

Autentica specialista in sequestri di persona, aggressioni, rapine, la Pennacchio fu in prima fila anche nell'eccidio di nove soldati presso Campobasso, nel 1863. Tuttavia le furono attribuiti anche atti di generosità, come il soccorso e persino la liberazione di alcuni sequestrati.

 

Memorabile e commovente, secondo i cronisti dell'epoca, l'ultimo incontro con il suo uomo, che aveva chiesto di rivederla prima di essere fucilato a Melfi: Schiavone si inginocchiò ai piedi della sua donna, che era in procinto di partorire, le baciò i capelli e le mani, le chiese perdono per la sua relazione con Rosa Giuliani (l'amante che, abbandonata in favore di Filomena, si era vendicata denunciando Schiavone) e le diede l'ultimo bacio. Ma lasciamo la parola ad un autore informato e puntuale come Basilide Del Zio, che riporta l’episodio nella sua biografia di Crocco:

 

Ora avvenne che, non appena fu comunicata a questo la sentenza di morte, egli, con le lagrime agli occhi, chiese per carità di rivedere la Filomena Pennacchio, e promise che avrebbe rivelata la casa ov’era nascosta, se il generale gli dava parola di contentarlo. Fu risposto affermativamente, e Schiavone svelò subito nome, cognome e sito. In un baleno la casa fu circondata di soldati e guardie e la Filomena difatti fu rinvenuta nella stanza indicata”.

 

Ed ecco la scena finale, così carica di amore ed erotismo da lasciare sgomenti ma anche sinceramente commossi i pochi astanti:

Schiavone e la Pennacchio – scrive Del Zio - si videro, si baciarono, e la separazione fu commovente. Schiavone si inginocchiò, le baciò i capelli, le mani, i piedi e, chiedendole perdono, la stringe fra le sue robuste braccia, e le scocca l’ultimo bacio d’amore”.

 

Amore e ferocia, audacia e violenza, delinquenza e passione, in una cornice di miseria e di immobilismo sociale in una delle fasi di transizione più drammatiche della storia italiana: l'incredibile vicenda delle brigantesse è stato tutto questo insieme. Ed è una storia che, comunque, vale la pena di conoscere ed approfondire.

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(Paolo Speranza storico, saggista e docente)