I
GRANDI CASI LETTERARI
Dante
Troisi, giudice scrittore, e quel "Diario" che scosse l'Italia. Un
vero choc letterario-politico
di Paolo
Speranza
“Il Diario,
a parte le sue alte qualità di stile, arrivò a segno come un sasso su di uno
stagno: che una tale denuncia fosse mossa da uno che consimili denunce doveva
semmai giudicarle e mai promuoverle parve a dir poco blasfemo”.
Così Andrea
Camilleri, amico ed estimatore del giudice-scrittore Dante Troisi, in un
articolo del 1972 sulla rivista “Il Dramma” rievocava la portata rilevante, un
vero choc letterario-politico, del Diario di un giudice
nell’Italia del 1955. In anni più recenti (2012) il compianto scrittore
siciliano lo avrebbe ribadito nella prefazione della ristampa del Diario per
le edizioni Sellerio.
Fra i due
interventi di Camilleri, a rendere l’impatto di quel “sasso nello stagno”
scagliato da Troisi era intervenuto Guido Crainz, che
sceglie di aprire il suo Storia del miracolo italiano. Culture, identità,
trasformazioni fra anni cinquanta e sessanta
(Donzelli, 1996) con questo incipit: “A metà degli anni cinquanta
crea scandalo un piccolo libro di un giovane magistrato di Cassino, Dante
Troisi: Diario di un giudice. È una riflessione sulla condizione del
giudice: esprime il disagio per una non-giustizia quotidiana in un’Italia che è
avvertita come un non-paese, un paese mancato”.
Quel libro, in
parte anticipato dagli articoli di Troisi su “Il Mondo” di Pannunzio, garantì
al suo autore il successo letterario (nel 1963 il Diary
of a Judge arrivò ad ottenere un ampio risalto –
circostanza rara per gli scrittori italiani - sulla prestigiosa rivista
statunitense “The Paris Review”) ma al tempo stesso incise negativamente sulla
sua carriera di magistrato.
Nel ’55 il
libro provocò un aspro dibattito che coinvolse anche le maggiori istituzioni
del paese: una parte del mondo politico e giudiziario (su iniziativa del
Partito Monarchico Italiano, e per le pressioni del Ministro della Giustizia
dell’epoca, Aldo Moro – del quale, ironia della sorte, l’autore aveva seguito i
corsi universitari a Bari - sul Procuratore Generale di Roma) accusò Troisi di
offendere l’onore dei magistrati e l’istituzione giudiziaria e lo portò davanti
al Consiglio di disciplina con l’accusa di “danneggiamenti e offese al
prestigio della magistratura”: a Troisi fu comminata in primo grado
l’ammonizione e, dopo l’appello, una misura ancora più grave: la censura.
Troisi pagò
dunque di persona il clima di oscurantismo dominante in quegli anni.
Diario di
un giudice, tuttavia,
si rivelò un best seller e costituì un vero proprio “caso”.
A intuirne per
primo il valore letterario era stato Elio Vittorini, che inserì Diario di un
giudice nella prestigiosa collana, da lui diretta, dei “Gettoni” delle
edizioni Einaudi, con questa presentazione: “Il dramma morale di un uomo che
s’angoscia di guadagnarsi il pane giudicando i propri simili ha dato lo spunto
per questo libro e gli fa da cornice. Ma il suo interesse e il suo significato,
come anche il suo linguaggio, vanno oltre i limiti della materia un po’
astratta d’un caso di coscienza. Il libro ha vita, in effetti, per le sue
storie e per le facce delle persone che il protagonista si trova a dover
giudicare un giorno dopo l’altro, E se resta tormentato e problematico lo è in
ragione di tutta la società (meridionale società) che finisce col rispecchiarsi
nelle sue pagine, primitiva, impetuosa e insieme, come stupefatto di non
riuscire ad aver altro di civile che avvocati e giudici”.
Sul piano
professionale e disciplinare, invece, a nulla valsero le prese di posizione in
favore di Troisi da parte di Vittorini, di altri intellettuali e di giuristi
illustri, fra i quali Alessandro Galante Garrone e Piero Calamandrei.
Quest’ultimo ravvisò lucidamente “un disperato amore per la giustizia”
in Troisi. Altro che vilipendio della magistratura: “C’è in questo libro,
oltre che un grande scrittore – scrive Calamandrei su “Il Ponte” nel marzo
del ’56 - una coscienza che si dibatte in cerca di giustizia”.
Sulla stessa
rivista il Diario era stato presentato con giudizi lusinghieri, nel ’55,
da Ferdinando Giannessi: “Buona parte di queste pagine, o forse tutte, le
avevamo già conosciute sul “Mondo”. (…) Si tratta delle confessioni di un
magistrato. La rappresentazione di un mondo angustiato dai confini di una
squallida provincia e da quelli di una moralità isterilita nella
burocratizzazione del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto, è ottima. In
diversi punti si sente il fascino maligno di una tragedia fatta di silenzi, di
catastrofi inconsapevoli, di ironie che associano l’intellettuale – e con più
drammatico impegolamento – alla miseria bruta dei
suoi incontri. Sotto questo aspetto, dunque, il Diario di un giudice
è un piccolo capolavoro”.
A difesa di
Troisi si schierarono anche alcuni dei più importanti giornali nazionali, fra i
quali “Il Giorno”, con un articolo del 22 settembre ’56 di Alfonso Madeo, e,
ancora nell’agosto del ’59, “Il Mondo”, con un intervento a firma di Marco
Ramat.
Paradossalmente,
l’ostracismo anti-Diario si rivelò più diffuso nell’ordine giudiziario,
con l’eccezione di alcuni giuristi illuminati, che nel mondo politico e
culturale.
Lo dimostrano le opposte reazioni al Diario
di un giudice: se la Dc e le forze di destra (in prima fila il deputato
missino Titta Madia, che rivolse un’interrogazione al Guardasigilli per
chiedere un provvedimento punitivo contro il giudice-scrittore) furono i
fautori della condanna di Troisi, sul versante opposto la sinistra e l’area
laica, e alcuni settori del cattolicesimo democratico (si pensi, per citare un
esempio, a un intellettuale del valore di Arturo Carlo Jemolo) si schierarono
apertamente in difesa della libertà di opinione, come testimoniano le prese di
posizione di autorevoli testate come “La Stampa” (area liberale, di proprietà
della Fiat), “Il Mondo” (liberal-radicale), “Il Ponte” (vicino ai socialisti ed
ai repubblicani) e “Vie nuove”, settimanale del Pci, che in un articolo non
firmato del 13 ottobre del ’56 titolava Un giudice non può esprimere i suoi
dubbi? e paragonava il “caso Troisi” al processo oscurantista che qualche
anno prima era costato il carcere ai critici cinematografici Guido Aristarco e
Renzo Renzi con l’accusa di vilipendio delle forze armate per il contenuto del
libro L’armata s’agapò sull’occupazione
italiana in Grecia nella seconda guerra mondiale.
Questa
pluralità di posizioni è confermata anche da un osservatorio più circoscritto,
ma non meno significativo, come quello della stampa politica nella provincia di
Avellino, terra di origine dello scrittore (nato a Tufo nel 1920): dove risalta
la tempestività del periodico “Il Progresso irpino”, quindicinale di sinistra
diretto da Nicola Vella (avvocato e scrittore che, al pari di Troisi era
passato attraverso le esperienze del Futurismo, dell’adesione al fascismo come
forza rivoluzionaria, infine della convinta scelta antifascista e democratica),
che già il 14 ottobre del ’55 dedicò al Diario di un giudice
un’ampia e positiva recensione in terza pagina, a firma di Michele Majetti.
I tempi, come
hanno poi rilevato Camilleri e Crainz, non erano
propizi a un dibattito franco sulla giustizia ed alla piena libertà
d’espressione.
Nella
magistratura, in particolare, la situazione era addirittura peggiorata rispetto
ai tempi della dittatura fascista: “Negli anni trenta, in una corporazione
come quella fascista, il clima culturale risentiva ancora del precedente
periodo liberale (…) Negli anni cinquanta, al contrario, al vertice della
magistratura si trovarono spesso giudici che avevano fatto una rapida carriera
durante il fascismo: non sempre per meriti professionali”, nota Alessandro
Galante Garrone in Il mite giacobino (Donzelli, 1994).
Le polemiche e
i provvedimenti disciplinari, in ogni caso, non interrompono la inesausta
riflessione morale dello scrittore-magistrato irpino.
La
problematica del Diario di un giudice viene ripresa e portata avanti da
Troisi in I bianchi e i neri (1965) e poi anche nel Viaggio scomodo (1967):
tre testi, ripubblicati nella “Biblioteca Rusconi”, col titolo comprensivo Viaggio
scomodo di un giudice (1981), che segnano una tappa importante nello
scrittore: soprattutto sono significativi, attraverso l’arte – e la parola che
la esprime - della sua tempra e figura morale.
Finalmente, a
poco più di vent’anni dalla prima edizione, nel ’77, in un’Italia profondamente
trasformata sotto il profilo politico e soprattutto culturale, il Diario di
un giudice divenne anche uno sceneggiato tv di successo, trasmesso in tre
puntate dalla Rai per la regia di Marcello Baldi. E oggi, a distanza di
settant’anni dal “caso Troisi”, il Diario di un giudice è ormai
considerato a pieno titolo un classico della letteratura italiana, insuperato
nel suo genere – secondo il parere, fra gli altri, di Italo Calvino – e più che
mai attuale. Un’opinione ribadita, fra gli altri, dello scrittore e cineasta
Turi Vasile, che in una sua pubblicazione edita da Gangemi ripropone Il
Viale dei Platani, un interessante e partecipato profilo del
magistrato-scrittore di Tufo, che Vasile ha frequentato e apprezzato,
accostandolo a un altro nome celebre del Novecento, Ugo Betti, l’autore di Corruzione
a palazzo di giustizia. Questi due autori, scrive Vasile, “mi hanno
lasciato, con le loro opere ancor più che con i loro pareri, una
interpretazione sottile e profonda del fenomeno della corruzione ambientale”.
Il valore
perenne e profondo del libro di Troisi, quindi, va ben oltre la contingenza
storica e resta un testo fondamentale sulla dimensione etica della magistratura
(soprattutto in relazione alle diverse classi sociali ed al mondo dei “vinti”)
e sul concetto stesso di giustizia. E ancora pochi anni fa, nel dibattito su
“Cinema e giustizia” con il regista Gabriele Salvatores alla Festa del Cinema
di Roma del 2010, il più affermato giudice-sceneggiatore dei giorni nostri,
Giancarlo De Cataldo (Romanzo criminale, Noi credevamo), ha ribadito il
valore di Diario di un giudice come il testo tuttora insuperato nel suo
genere.
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(Paolo
Speranza storico, saggista e docente)