'Noi donne vinceremo sui Taleban'. Colloquio con Sonia Nassery Cole
di Daniele Mastrogiacomo - L'Espresso
Si cancella la cultura mandando al
rogo 840 libri. Libri sulle donne, scritti dalle donne. Si distrugge
ogni possibile riferimento a valori di libertà e di emancipazione. Si
confinano in casa le ragazze che aspirano a emergere dal buio a cui sono
condannate.
In Afghanistan siano tornati indietro. Nel tempo e
nella storia. I Taleban l’hanno trascinato ancora nel Medio Evo. Usano
il Corano per giustificare l’apartheid. Ma c’è qualcosa di peggiore: sembra che
nulla sia accaduto negli ultimi vent’anni. È stata cancellata ogni traccia di
un progresso che iniziava a germogliare. Chiuso Internet. Tutto è avvolto da un
cupo silenzio.
Si riparte dall’inizio. Dal grido disperato che chiede di
nuovo libertà. Quello delle donne, soprattutto, avvolte dal mantello nero della
paura. L’ultimo appello arriva ancora una volta dagli Usa. Come 30 anni fa. Da Sonia
Nassery Cole, nota regista, scrittrice e
attivista. Conosce bene il suo Paese. È stata lei, nel lontano 1982, a
scoperchiare per prima la realtà drammatica dell’Afghanistan. Era fuggita da
Kabul. Aveva solo quattordici anni. Ha assistito impotente al naufragio. Nessuno
sapeva cosa stava accadendo in quella terra lontana, carica di storia, cultura,
commercio e di leggendarie resistenze. Tre anni dopo, Nassery
Cole ha scritto di suo pugno una lettera al presidente Ronald Reagan. Gli ha
raccontato le ingiustizie che subiva l’Afghanistan, gli ha chiesto aiuto. L’ex
attore finito alla Casa Bianca si è commosso, l’ha invitata nello Studio Ovale.
È stato l’inizio del riscatto culminato nel 2001 con la sconfitta dei Taleban.
L’Espresso l’ha intervistata.
In Afghanistan tutto è tornato come prima, signora Cole.
Peggio di prima.
«Se guardiamo a quello che accade, sembra proprio così.
La decisione dei Taleban di abolire i libri sulle donne, scritti da donne, non
è semplicemente una censura. È un attacco alla memoria, alla cultura e
all’esistenza intellettuale delle donne afghane. Soffocando queste voci, stanno
tentando di cancellare il nostro ruolo nella storia. Definire queste opere
“anti-Sharia” significa distorcere la religione, perché l’Islam stesso vanta
una gloriosa tradizione di studiosi femminili».
Si è spenta la speranza di una riscossa?
«No. Le parole sono come semi: le donne afghane
continueranno a scrivere in esilio, in segreto e in segno di sfida. Le loro
voci non possono essere cancellate».
L’intervento degli Stati Uniti è rimasto solo come
l’ennesimo caso di occupazione straniera.
«Gli Stati Uniti e i loro alleati sono entrati nel mio
Paese promettendo libertà. Ma quando, come donne, abbiamo avuto bisogno ancora
di più del loro sostegno siamo state abbandonate. I tanti diritti faticosamente
raggiunti sono stati barattati in trattative in cui nessuna di noi aveva
diritto di parola».
Diritti tutti cancellati.
«I vent’anni di libertà non sono stati privi di
significato. Le ragazze sono diventate dottoresse, le donne hanno aperto
attività commerciali, i registi hanno raccontato le loro storie. Quelle
esperienze hanno dimostrato che un altro Afghanistan era possibile. La tragedia
non è il progresso che avevamo ottenuto, ma essere stati abbandonati dal mondo
prima che quel progresso potesse mettere radici».
Durante l’ultimo, devastante terremoto i Taleban hanno
proibito perfino di estrarre le donne dalle macerie a meno che non fosse
presente un parente stretto.
«Questo indica la misura della loro crudeltà. Costringere
le donne a morire sotto le macerie piuttosto che essere toccate da uno
sconosciuto non è religione: è barbarie mascherata da fede. Questo è
l’apartheid di genere portato all’estremo: alle donne vengono negati non solo
l’istruzione o il lavoro, ma anche la salvezza, l’assistenza medica e il
diritto alla vita. Devono essere considerati crimini contro l’umanità».
La misoginia affligge ancora i Taleban.
«Al centro del governo talebano c’è la paura: la paura
dell’intelligenza delle donne, della loro indipendenza, del loro potere. Questa
paura è il motivo per cui chiudono le scuole, bruciano i libri e cancellano le
donne dalla vita pubblica. Queste non sono politiche di fiducia, ma di terrore.
L’ironia è che le donne afghane sono sempre state una fonte di forza. Dalle
poetesse alle combattenti per la libertà, esse sono la spina dorsale della
cultura afghana. I talebani temono questo perché sanno che la loro ideologia
non può sopravvivere alla verità delle donne. E questa paura, alla fine, sarà
la loro rovina».
Si è sentita tradita, come molti dei suoi compatrioti,
quando gli Stati Uniti si sono ritirati caoticamente nell’agosto 2021?
«Sì, mi sono sentita tradita; non solo personalmente, ma
per milioni di donne e ragazze afghane che avevano creduto nelle promesse di
libertà. Per vent’anni ci è stato detto che i diritti delle donne erano
fondamentali. E poi, in pochi giorni, tutto è crollato. Le immagini degli
afghani aggrappati agli aerei rimarranno nella storia come simboli di
abbandono».
Una sconfitta amara.
«Il tradimento non equivale a sconfitta. Quei vent’anni
ci hanno mostrato la libertà, e quel ricordo non può essere cancellato. Le
donne afghane continuano a resistere, in esilio e in segreto, perché tutte noi
sappiamo di meritare di meglio».
Non pensa che esportare la democrazia sia stato un
tentativo fallito fin dall’inizio?
«Ciò che è stato condannato è stata l’idea che la
democrazia potesse essere calata dal cielo con i carri armati. La democrazia
non può essere esportata: deve essere radicata nel suolo del popolo. Ciò che ha
fallito è stata l’arroganza di imporre la democrazia senza ascoltare, senza
costruire fondamenta sostenibili».
Il burqa rappresenta universalmente l’indumento che
imprigiona le donne. Per un popolo con una lunga storia di eccellenza nelle
arti, nella cultura, nella storia e nell’istruzione, è la negazione della vita
stessa. Ma resiste.
«Il burqa, quando imposto, non è cultura: è una prigione.
Cancella le donne, le avvolge nell’oscurità e dice loro che non esistono.
Costringere le donne afghane a questa invisibilità significa negare secoli di
poesia, arte e storia. Il burqa può coprire i nostri corpi ma non può
nascondere il nostro coraggio».
Nel suo film The Black Tulip, racconta il tentativo di
una famiglia di iniziare una nuova vita senza i Taleban, un tentativo che alla
fine fallisce. Perché?
«Perché questa è la realtà dell’Afghanistan. Ogni
tentativo di vivere liberamente è stato annientato dalla violenza,
dall’estremismo e dal tradimento. La famiglia nel film rappresenta tutte le
famiglie afghane: coraggiose, resilienti, determinate, ma sconfitte da forze
più grandi di loro. Volevo che il pubblico sentisse il costo dell’oppressione.
Il loro fallimento non è una loro debolezza, è l’incapacità del mondo di
proteggerli».
Una donna di un villaggio senza burqa rischierebbe di
essere ostracizzata dalle altre donne.
«La tradizione è potente, ma non è il destino. Sì, nei
villaggi remoti la pressione è immensa: le donne si sorvegliano a vicenda
perché è stato loro insegnato che la sopravvivenza dipende dall’obbedienza. Ma
il cambiamento è possibile. Quando una ragazza impara a leggere, diventa
un’insegnante per le altre. Quando una madre viene sostenuta, protegge le sue
figlie in modo diverso».
Sono costrette al silenzio.
«Le donne afghane non sono silenziose: sono messe a
tacere. Ma anche nel silenzio, resistono. Nelle aule segrete, nelle poesie, nei
film, nei sussurri, lottano per l’anima del nostro Paese. La paura delle donne
da parte dei Taleban è la loro debolezza. Il nostro coraggio è la nostra forza.
Con il sostegno del mondo, non saremo cancellate».
I Taleban alla fine sono tornati. Accolti come patrioti.
«I Taleban non sono afghani nello spirito. Molti dei loro
leader sono stati formati in madrase straniere e hanno adottato ideologie
importate, ideologie che non riflettono la compassione e la cultura della
nostra fede. Si proclamano religiosi, ma le loro azioni tradiscono tutto ciò
che il Corano insegna sulla misericordia e la sacralità della vita. Sono, di
fatto, un’altra forza d’invasione. Straniera quanto i conquistatori del
passato. L’Afghanistan è sopravvissuto a imperi e invasori in passato. I loro
tentativi di conquistare i nostri cuori e le nostre menti sono falliti. Anche
questa volta fallirà. I loro giorni stanno arrivando».
Quale messaggio si sente di dare alle donne afghane?
«A ogni donna afghana dico: continuate a lottare. Non
arrendetevi mai. La vostra determinazione durerà per sempre. Combatterò per voi
fino all’ultimo respiro. Supereremo questo male che ha preso il controllo della
nostra terra libera. Vinceremo. Dio benedica l’Afghanistan»
***
(Daniele Mastrogiacomo www.lespresso.it - Per anni firma di punta del quotidiano La
Repubblica, ha seguito grandi vicende internazionali rischiando anche la
fucilazione in Afghanistan e liberato dopo una vasta campagna giornalistica
mondiale. Ora scrive per
il settimanale L'Espresso)