Quel rompicapo della governance
dell’acqua italiana. Quasi 200 società di gestione. Ma è un colabrodo
di Stefano Carli - Linkiesta
ROMA
- In Italia l’acqua fa acqua: non è solo la nota e annosa (ma mai risolta)
questione delle perdite della rete italiana degli acquedotti, da cui
sparisce circa il quaranta per cento della risorsa idrica trasportata dalle
fonti alle utenze domestiche e alle imprese. C’è di più e di peggio: fa acqua
un sistema di governance che è un colabrodo di inefficienza e su cui nessun
governo si azzarda a mettere le mani.
Il
risultato, oltre la già citata dispersione di quasi la metà dell’acqua
convogliata nelle condutture, è una completa mancanza di investimenti,
concentrata nelle gestioni pubbliche, quelle in economia (realizzate
direttamente dagli enti locali) e quelle cosiddette in house, ossia
operate da Spa ma controllate dal pubblico. Le cifre, come tutte le altre che
seguiranno, provengono da un denso e articolato studio della Arthur D. Little
(società di consulenza strategica) dedicato al sistema idrico italiano appena:
una ricostruzione preziosa dello sfacelo del settore, ma anche delle sue
potenzialità.
Nell’Unione
europea la spesa media in termini di investimenti nel settore idrico è di
ottantadue euro l’anno per abitante. In Italia siamo a meno della metà:
trentotto euro. Cifra che è già di per sé una media: gli investimenti operati
dalle gestioni imprenditoriali, tipicamente quelle delle maggiori utility, da
A2A alla romana Acea fino a quelle di medie dimensioni, sono sempre sotto la
media Ue ma ci si avvicinano di più: cinquantasei euro. Acqua e condutture
gestite direttamente dai piccoli Comuni investono appena la miseria di otto
euro l’anno ad abitante. Ed è una media anche questa.
Il
paradosso è che questo disastro nasce da una condizione naturale ottimale:
l’Italia vanta infatti un patrimonio idrico fra i più ricchi in Europa, e solo
adesso la riduzione delle precipitazioni e l’aumento delle temperature stanno determinando una
progressiva diminuzione della disponibilità idrica e un’intensificazione delle
crisi, evidenziando così la vulnerabilità dell’infrastruttura idrica: poco
interconnessa e poco digitalizzata e quindi non capace di ottimizzare il bilanciamento
tra fonti ed impieghi, caratterizzata da perdite idriche elevate e da un
importante fabbisogno di investimenti per rinnovare gli asset esistenti e
svilupparne nuovi indispensabili per garantire la tutela futura della risorsa
idrica (depuratori, invasi e impianti di gestione fanghi di depurazione).
Una
situazione che è ben nota anche a Bruxelles, che ha infatti aperto contro
l’Italia ben novecentotrentanove procedure di
infrazione, riguardanti in specie l’inadeguatezza dei servizi di fognature e
depurazione, e che per il settantadue per cento dei casi riguardano regioni del
Sud. Il consumo idrico in Italia, anzi, in termini tecnici più corretti (la
ripartizione dei prelievi idrici), si divide in tre parti: uso civile,
agricoltura e industria.
Il
primo è l’acqua potabile dei consumi domestici ma anche degli esercizi
commerciali e degli uffici: è l’acqua che usiamo per bere, mangiare e lavarci,
e pesa poco meno di un terzo del totale, il
trentuno per cento. La fetta più grande, il cinquantasei per cento, è usata
dall’agricoltura per l’irrigazione delle colture. L’Industria ne usa appena il
tredici per cento. L’agricoltura si approvvigiona direttamente da fiumi, laghi,
naturali e artificiali, bacini di raccolta di acque piovane, canali. L’industria
ha in maggioranza una sua struttura di pescaggio da pozzi e solo in minima
parte è servita dagli acquedotti. Questi sono appannaggio degli usi civili.
Collegano fonti e sorgenti con le città. E le città con fiumi e il mare.
Perché
il ciclo dell’acqua è doppio: un’infrastruttura si occupa di alimentare i
consumi, mentre una seconda di recuperare le acque di scarico e depurarle. E
sono queste infrastrutture il cuore del problema: venticinquemila chilometri di
condutture vecchie, mal manutenute, mai ammodernate e dove l’era digitale, con
i suoi sensori in grado di individuare subito un guasto, è ancora un futuro da
fantascienza. Senza interconnessioni tra di loro. Un fenomeno che moltiplica le
interruzioni del servizio, soprattutto al sud.
Eppure i soldi ci sarebbero. Anzi, ci
sarebbero stati: peccato che dei fondi Ue a disposizione degli acquedotti ne
usiamo appena il trentanove per cento, cosa che ci pone agli ultimi posti
nell’Unione. Ora ci sono i fondi del Pnrr. Sono quasi
tre miliardi di euro: novecento milioni per ammodernare le tubature e
altrettanti per il sistema irriguo (per creare sistemi di riutilizzo circolare
dell’acqua per irrigazione); seicento milioni per le fognature; cinquecento
milioni per finanziare sistemi di monitoraggio dei cambiamenti climatici. A
settembre scorso si è chiuso il termine per l’aggiudicazione delle gare
d’appalto, che sono state in sostanza tutte assegnate.
Il
problema inizia ora con l’operatività. Le statistiche sono a sfavore del Paese:
sui lavori di rete idrica in corso sono infatti aperte trecentodiciassette
contestazioni da parte di enti locali, cittadini e imprese. Il dieci per cento
è addirittura più vecchio di dieci anni. Arrivare al progetto esecutivo e
all’apertura dei cantieri è spesso un miraggio: calcola la Arthur D. Little che
ci sono almeno dieci enti autorizzativi da cui attendere la luce verde, e un
iter che ha una durata media di 4,4 anni.
Una
cosa è da mettere subito in chiaro: l’acqua è pubblica e di tutti. Il problema
non è la proprietà dell’acqua, ma chi ne gestisce la distribuzione. E siamo al
rompicapo. Il settore idrico in Italia è regolato dalla legge Galli del 1994,
che porta in Italia il concetto europeo di Sii, Servizio idrico integrato, dove
si disegna il ciclo dell’acqua dalla raccolta alla distribuzione fino al ritiro
con le fognature e alla depurazione, e quindici anni dopo dal decreto Ronchi di
fine 2009.
Dal
punto di vista del servizio idrico, il territorio italiano è diviso in sette
distretti idrografici (Padano, Alpi Orientali, tre distretti appenninici, Nord,
Centro e Sud, più le due isole, Sicilia e Sardegna). Ognuno è governato da una
autorità di bacino, i magistrati delle acque che si occupano dello stato di
salute di fiumi, laghi, ghiacciai e fonti. E fin qui nulla di strano. Il caos è
tutto nella gestione delle tubazioni dell’acqua potabile, dove inizia la
sarabanda dei numeri. Gli acquedotti sono governati da cinquantotto Ambiti
territoriali ottimali (Ato): sono definizioni
territoriali che vengono governate da un soggetto pubblico, gli Ega, gli enti
di gestione.
L’attuale
numero – cinquantotto – è frutto di accorpamenti successivi. Per
esempio il Lazio aveva cinque Ato che oggi si
sono accorpati in uno unico. Anche Puglia, Campania, Emilia
Romagna hanno un unico Ato, la Lombardia ne ha
invece dodici e la Sicilia nove. Ogni Ato si
suddivide poi in “bacini di affidamento”, ossia territori e infrastrutture da
affidare ad un gestore unico. Originariamente, secondo la legge Galli, dovevano essere uno per provincia
ma ci sono stati degli accorpamenti. Il Lazio ne ha tuttora cinque,
quante le province, come anche Piemonte, Marche, Sicilia. La Puglia uno solo,
affidato alla Acquedotto Pugliese e così la Sardegna. L’Abruzzo, con quattro
province, ne ha sei. Tirando le somme, quindi, i bacini di affidamento sono in
tutto novantadue.
Finito?
No, perché i bacini di affidamento vengono suddivisi in “sottobacini di
affidamento”: di questi ce ne sono centoventitré. Già
la legge Galli promuoveva l’affidamento ad un gestore unico di ogni singolo
bacino. Ma, stando ai conti della Arthur D. Little, i gestori unici sono al
momento centottantasei. Abbiamo finito? Ma neanche
per sogno. Perché nonostante la legge Galli sia del 1994, non tutti i
novantadue bacini – diciamo – primari, sono stati affidati a un gestore: ce ne
sono ancora sette che non lo sono stati. Tra questi, quattro hanno appena avuto
l’affidamento ma non è ancora operativo e tre, dopo trent’anni, sono ancora a
zero.
Degli
ottantacinque bacini primari affidati, solo sessantatré sono stati affidati ad
un gestore unico, come vorrebbe la legge. Peccato che di questi sessantatré
solo tre siano società private, anche quotate, in pratica le multiutility.
Inoltre, nove sono finiti a gara a società private locali, più piccole e otto
sono stati invece assegnati tramite una cosiddetta “gara a doppio effetto”: la
concessione viene data senza gara a una società pubblica
la quale si impegna a individuare un socio privato attraverso una qualche forma
di selezione. Ma la fetta più grossa, composta da quarantatré bacini, è stata
affidata a gestioni in house.
Infine,
ci sono millequattrocento Comuni che sono rimasti a prima della legge Galli e
gestiscono acqua potabile e fognature in economia, attraverso un ufficio e
dipendenti comunali. Sono nelle regioni in cui ci sono ancora bacini non
assegnati: Campania, Calabria, Sicilia, Molise e Val d’Aosta. Ricevono a
tutt’oggi l’acqua dalle amministrazioni comunali il settanta per cento dei
calabresi, il trenta per cento dei campani, il trentacinque per cento dei
siciliani, il sessantacinque dei molisani e il sessanta per cento dei
valdostani.
«Noi
lavoriamo con molti operatori, li supportiamo nella partecipazione alle
procedure per l’affidamento delle concessioni per il servizio idrico integrato
e sappiamo che è una situazione complessa con un potenziale grande interesse da
parte delle utility e una carenza invece di opportunità sul mercato
dall’altra», spiega Irene Macchiarelli, partner di Arthur D. Little,
specializzata in infrastrutture energetiche e idriche. Tra gli Enti di governo
d’ambito (Ega) – prosegue – «non c’è grande capacità di rispondere a queste esigenze, ognuno singolarmente fa poche gare, a
distanza di anni. Non ci sono in questi enti competenze specifiche formate, il
rischio di ricorsi è elevato e conseguentemente diventa difficile attrarre le
gestioni industriali. E poi anche nei bacini affidati, ci sono spesso più
soggetti presenti (oltre al gestore unico) quali gestori salvaguardati e comuni
che gestiscono il servizio in economia, che sono la vera ragione dell’elevata
frammentazione gestionale».
Un
caso tipico è quello di Como, che è pure la provincia con il minor tasso di
dispersione di acqua dalla rete di condutture. Il bacino è stato affidato a un
unico gestore, ma i gestori risultano ancora tre perché ci sono gestori
precedenti che resteranno attivi fino alla fine del loro contratto. Quello che
si occupa di fognature ha per esempio un contratto che scade nel 2036.
«La
cosa migliore per evitare contenziosi è spingere gli attuali gestori pubblici
ad unirsi volontariamente e favorire l’evoluzione verso società miste
pubblico-private. L’obiettivo – continua Macchiarelli – è comunque di
accelerare nel consolidamento del settore, scendere fino a non più di
sessantacinque gestori, azzerare completamente le gestioni in economia. E
magari nel frattempo supportare le amministrazioni locali con indirizzi di
programma di livello nazionale al fine di concentrare le risorse sugli ambiti
di intervento prioritari per il Paese e di favorire l’interconnessione delle
infrastrutture per una maggiore tutela della risorsa idrica. Soprattutto quelle
delle grandi adduzioni e delle dighe. Le amministrazioni più piccole, che siano
ancora titolari dei diritti di concessione, aiutandole ad organizzare le gare,
gli affidamenti e la loro unificazione in consorzi sempre più ampi. Servirebbe
una specie di Consip dell’acqua che dia certezza di azione agli amministratori
pubblici e certezze regolamentari alle imprese che vorranno investire».
***
(www.linkiesta.it - Stefano Carli è una delle firme
storiche di "Affari e Finanza" settimanale di "Repubblica".
Ora collabora con autorevoli pubblicazioni)