TRIBUNA
GRUPPO
GEDI, CRONISTORIA DI UNA CATASTROFE
di
Alessandro Gilioli
ROMA
(MicroMega) - Nel 2020 i piani alti del grattacielo di via Cristoforo Colombo
90, a Roma, erano ormai poco frequentati dai giornalisti: da tempo se n’erano
appropriati i più potenti dirigenti d’azienda, con i loro uffici di mezzo
ettaro, le loro sale riunioni e le loro segretarie. L’Espresso –
che prima vi risiedeva – era stato spedito giù al quarto, ristretto sotto il
Venerdì. L’insediamento dei super-capi peraltro aveva comportato lunghi e
costosi lavori, perché su al decimo avevano voluto rifare tutto in mogano.
Un giorno
della tarda primavera però anche qualcuno di noi giornalisti fu riammesso ai
piani nobili su chiamata aziendale: direttori e vicedirettori, per la
Repubblica anche qualche caporedattore. Quelli del quotidiano erano
quindi il gruppo più folto, mentre dell’Espresso eravamo in tre.
Ricordo tra gli altri un imperturbabile Lucio Caracciolo (il direttore di Limes,
in piedi come noi) e un defilato Paolo Flores d’Arcais (qui è inutile ricordare
chi sia: aggiungo soltanto che era in piedi anche lui, a 75 anni, mentre i
dirigenti stavano seduti attorno alla lunga scrivania rettangolare). Eravamo
una quarantina, fra tutti; c’erano anche i responsabili delle radio, dei
supplementi, di Kataweb, dell’Huffington Post e un po’ di direttori
di quotidiani locali. Il gruppo allora ne aveva una quindicina e alcuni erano
dei gioiellini: da Pavia a Livorno, dalla Romagna alla Sardegna.
A metà della
scrivania, quel giorno, era seduto un uomo calvo sulla cinquantina, un volto
anonimo come il suo abito grigio. Era Maurizio Scanavino, ex compagno di scuola
e amico da sempre di John Elkann, esperienze editoriali prossime allo zero e
solo nei settori pubblicità e marketing, per il resto tutto formato
nell’automotive. Fu quel tizio, il nuovo amministratore delegato, a parlarci
del futuro radioso del gruppo, riempiendosi la bocca di digital first e
altri dimenticabili vaniloqui. Poi Scanavino passò la parola a Elkann, che però
non aveva ritenuto degno di sé venire di persona, sicché il suo breve discorso
usciva da un gracchiante altoparlante collegato al telefono, potente presenza
in assenza, invisibile ma pure abbastanza inascoltabile: non solo per la
pochezza dei contenuti ma anche per la scarsa qualità dell’audio. Alla fine non
ci furono domande degli astanti, ciascuno tornò ai piani inferiori a bassa
voce.
Così nel 2020
iniziò il comando di Elkann in quello che era stato il Gruppo Editoriale
l’Espresso ma aveva già cambiato nome in Gedi, quando la Fiat era entrata con
una quota di minoranza, il 6%, qualche anno prima.
Sì, perché
questa storia ha radici lontane e molti colpevoli – diciamo pure: quasi tutti –
e non inizia con l’insediamento di Elkann ma semmai il 15 ottobre del 2008,
quando Carlo Caracciolo – il fondatore, il partigiano, il principe – si spense
nella sua casa di Trastevere, di fronte all’isola Tiberina. Caracciolo era
ormai azionista secondario – il grosso era di Carlo De Benedetti – ma lui era il
Gruppo editoriale l’Espresso. Lo era per carica (presidente operativo fino al
2006) ma soprattutto per carisma, per spirito, per libertà mentale e per
unanime stima di noi giornalisti, che prima dell’assunzione dovevamo passare
dal suo ufficio temendo una sorta di esame e trovando invece battute cordiali e
chiacchiere informali – o perfino richieste di consigli. Con me, ad esempio,
scorrendo il curriculum scoprì che ero stato direttore del mensile Gulliver e
mi chiese cosa pensassi del supplemento Viaggi di Repubblica,
mettendomi in imbarazzo perché lo trovavo proprio bruttino; ma non è che
potessi dirglielo in faccia, quindi mi limitai a un fantozziano “mah, forse ha
qualche margine di miglioramento” e lui scoppiò a ridere: “No no Gilioli,
l’abbiamo fatto proprio alla cazzo!”.
Poco dopo la
morte di Caracciolo, ai vertici del gruppo cambiò l’amministratore delegato:
fuori Marco Benedetto (un burbero ma bravissimo ex giornalista genovese, che ci
guidava da oltre vent’anni e di carta stampata sapeva eccome), dentro una
manager-manager che veniva dalle assicurazioni e stava tra l’altro nel Cda di
Autostrade per l’Italia accanto a Giovanni Castellucci, quello che adesso è in
galera per disastri di viadotti e ponti. Fu il primo segnale forte della
trasformazione del gruppo da “vascello pirata” (definizione di Eugenio
Scalfari) a portaerei dell’establishment economico italiano. E per noi ai piani
bassi fu anche l’inizio della fine quanto a spirito di gruppo, orgoglio di
testata, senso di una missione civile collettiva che andava molto oltre la
semplice prestazione professionale: quello che ci avevano trasmesso Carlo
Caracciolo ed Eugenio Scalfari, insomma.
Eppure, anche
con De Benedetti senior non si stava poi così male, specie a confronto col
dopo. Ezio Mauro era tosto e intoccabile alla direzione di Rep,
finché continuava la sua eterna battaglia contro Berlusconi; gli interventi
della proprietà nelle redazioni erano rari e pacati; il quotidiano-ammiraglia
vendeva ancora quasi mezzo milione di copie al giorno, i giornali locali
insieme ne facevano altre 400 mila e noi dell’Espresso eravamo tra le 200 e le
300 mila ogni settimana. L’ingegnere – insomma Carlo De Benedetti – noi lo
vedevamo solo per gli auguri di Natale e il suo discorso era sempre onusto di
pessime previsioni per l’anno successivo: ma non per il gruppo, proprio per
l’Italia, l’Europa e il mondo. Ogni tanto si distraeva per comprare o vendere
azioni al telefono col suo broker, dandoci respiro. Tuttavia anche Cdb in
questa storia non è innocente, perché la sua decisione di regalare tutte le testate
ai figli, nel 2013, fu catastrofica e quella di lasciare la presidenza al
secondogenito Marco, nel 2017, semplicemente sciagurata.
Il nuovo boss,
De Benedetti junior, non solo non sapeva nulla di editoria, ma questa proprio
non gli interessava: si trovava molto più a suo agio con la telefonia, la
finanza e la passione per le auto sportive di lusso. Noi all’inizio lo temevamo
un po’, politicamente parlando, perché era sposato con Paola Ferrari, la
conduttrice tivù già candidata con Storace e allora legatissima a Daniela
Santanchè, insomma i giri dell’estrema destra; ma sbagliavamo, perché avremmo
dovuto avere molta più paura della sua incompetenza editoriale, della sua
indifferenza verso i giornali e soprattutto del desiderio – suo e dei fratelli
– di sbarazzarsene monetizzando il regalo di papà.
Arrivò presto
una nuova amministratrice delegata, Laura Cioli, il cui compito era solo quello
di tagliare i costi e i posti di lavoro. Cosa che fece con dovizia ma – bisogna
essere onesti – senza troppi bagni di sangue: solo contratti di solidarietà,
prepensionamenti, incentivi all’uscita, blocco del turn-over. Il downsizing era
comunque iniziato e alla macchinetta del caffè, giù in cortile, non si parlava
più di idee e progetti ma solo di cassa integrazione, esuberi, tagli, chiusure,
insomma i grandi spauracchi. Il senso di far parte di un’impresa civile
collettiva, già sfilacciatosi negli anni, era ormai cosa lontana.
I figli
dell’ingegnere, d’accordo con lui, vendettero quasi subito una quota
minoritaria dell’azionariato a Elkann, quel 6% a cui si è accennato sopra,
cambiando nell’occasione il nome della ditta da Gruppo editoriale L’Espresso a
Gedi; un paio d’anni dopo però il nipote di Agnelli si prese l’intero pacchetto
di controllo e questa volta l’operazione avvenne in contrasto plateale con De
Benedetti senior, che se ne infuriò coi figli. Fu a vendita conclusa, nella
primavera del 2020, che Cioli venne liquidata con quasi due milioni di euro e
come amministratore delegato arrivò Scanavino, quello che ci convocò ai piani
alti facendoci sentire il gelido gracidio di Elkann in viva voce – viva fino a
un certo punto, in verità.
Intanto la
confusione editoriale ai vertici si era già plasticamente mostrata con il
carosello di direttori di Rep, successivi ai due incarichi,
entrambi ventennali, di Eugenio Scalfari e di Ezio Mauro: prima Mario Calabresi
(durato tre anni, compresa la breve condirezione di un uomo di destra come
Tommaso Cerno, oggi a capo del Giornale degli Angelucci); poi
Carlo Verdelli (durato un anno e spiccioli, brutalmente licenziato nel giorno
che le minacce dei neonazisti avevano fissato per la sua morte); quindi
Maurizio Molinari, il primo direttore scelto da Torino, ex corrispondente della Stampa da
Gerusalemme e noto per i suoi legami con il governo israeliano; infine Mario
Orfeo, entrato in carica poco più di un anno fa. Nei suoi primi
quarant’anni la Repubblica aveva avuto due direttori, negli
ultimi dieci anni ne ha avuti quattro.
Comunque
seguirono, dall’arrivo di Elkann in poi:
la chiusura
quasi immediata di MicroMega, la cui testata verrà poi rilevata da
Paolo Flores d’Arcais per farla tornare a vivere;
la vendita
progressiva di tutte le testate locali, per primo il Tirreno di
Livorno e per ultimo il Secolo XIX e in mezzo il
Piccolo di Trieste, la Nuova Sardegna, la Gazzetta di
Reggio, la Gazzetta di Modena, la Nuova Ferrara, il
Messaggero Veneto, la Città di Salerno, il Mattino di
Padova, la Nuova di Venezia, la Tribuna di Treviso, il
Corriere delle Alpi, la Gazzetta di Mantova e la
Sentinella del Canavese;
la vendita nel
2022 dell’Espresso, che pure aveva dato vita, cuore e nome al gruppo;
l’acquirente era il presidente della Salernitana calcio (attualmente condannato
in primo grado a quattro anni per corruzione), il quale promise la rinascita
della testata e invece la passò quasi subito a un altro imprenditore campano,
settore stoccaggio di combustibili fossili (non male, per il settimanale su cui
aveva condotto le sue battaglie Antonio Cederna, il padre dell’ambientalismo
italiano).
Fu una
distruzione del gruppo quasi scientifica, quindi. A cui si aggiungono altri
dati crudi, per i quali qui si prende in prestito lo studio pubblicato dal
giornalista economico Nicola Borzi: dal 2015 al 2024 il fatturato cumulato di
Gedi è passato da 759 a 370 milioni, nello stesso periodo il conto economico ha
segnato 270 milioni di perdite; in nove anni il patrimonio netto si è ridotto
dell’87%, con una distruzione di valore di 455 milioni. E poi: in dieci anni le
copie vendute della Repubblica, incluse quelle digitali, sono scese
del 59%, quelle della Stampa del 38%.
Il tutto è
avvenuto anche con sfumature comiche o grottesche. Ne cito alcune, andando a
memoria:
i dipendenti
di via Cristoforo Colombo traslocati ogni due per tre da un piano all’altro del
palazzo per restringerne gli spazi e risparmiare sull’affitto, quindi costretti
a una girandola di smart working affinché la stessa postazione potesse essere
usata da due o tre persone;
i locali a
pian terreno, dove in tempi migliori si festeggiava in diretta con la musica di
webnotte, ceduti a un bar su strada;
firme storiche
come quella di Bernardo Valli che sparivano da la Repubblica dopo
le censure imposte dal direttore Molinari;
lo stesso
Molinari che, entusiasta per i cosiddetti “accordi di Abramo”, a un certo punto
ha iniziato a corteggiare Donald Trump, mentre continuava ininterrotto
l’omaggio a Netanyahu, il che comportò tra l’altro il licenziamento del
corrispondente da Israele (un giovane e brillante giornalista ebreo italiano,
collaboratore di Haaretz) perché non abbastanza schierato a destra.
E ancora:
l’amministratore
delegato Scanavino che nel 2022 diventava anche Ceo della Juventus, “senza
capire nulla né di editoria né di calcio” (cit. Carlo De Benedetti) e in
effetti fallendo su entrambi i fronti;
la
pubblicazione di un articolo surreale del papà dell’editore, Alain Elkann, che
mescolava dosi massicce di snobismo, classismo, elitismo e supponenza
generazionale, al punto da diventare un caso e costringere il sindacato interno
a intervenire;
infine, John
Elkann che qualche settimana fa si è fatto miracolosamente vedere nella
redazione della Stampa in segno di solidarietà per
l’aggressione degli estremisti pro-Pal e pochi giorni dopo si è liberato degli
stessi giornalisti appena rassicurati, i quali forse avrebbero avuto ragione di
temere il loro editore più dei birraioli rovesciacestini dei centri sociali.
Tutto questo,
e molto altro, si è tradotto in un crollo reputazionale che ha avuto
conseguenze peggiori di quello delle vendite.
Ora che la
parabola si sta concludendo, restano tuttavia alcune domande.
Perché i
giornalisti di Repubblica e dell’Espresso non
si sono ribellati a questa deriva?
Ecco, io direi per paura, per comodità e per status.
Per paura di finire nelle liste dei prepensionati o dei
licenziandi, per paura della cassa integrazione e per paura in
generale, in un contesto editoriale nel quale nessun giornale assume più;
per comodità, visto che il posto di lavoro nel gruppo Gedi lo hanno
(lo abbiamo) sempre considerato sicuro e stabile, con i suoi robusti buoni
pasti e i suoi generosi rimborsi culturali, insomma un posto migliore rispetto
a tutte le aziende più o meno pirata, povere e/o manigolde che caratterizzano
l’editoria italiana; per status, dato che nella testa di molti
essere giornalisti di Repubblica o dell’Espresso faceva
comunque figo e prestigio: inviti ai vernissage, ai festival, ai saloni, alle
presentazioni dei libri o alle prime dei film, ma anche ospitate in tivù,
terrazze romane e altri appagamenti di vanità (qualcuno, da solo, se n’è invece
andato in silenzio, come l’autore di questo articolo, il fondatore e la
direttrice di questa testata, più altri sparsi, taluni noti e talaltri
sconosciuti).
Perché John
Elkann ha comprato e poi distrutto e venduto Gedi?
Questa è facile: perché le sue testate maggiori, su carta e web, gli servivano
a coprire mediaticamente e politicamente la fuga dall’Italia del suo impero,
gli scazzi in tribunale con la madre, gli scheletri nell’armadio come i fondi
neri del nonno scoperti all’estero e le disavventure giudiziarie che lo hanno
costretto ai servizi sociali; oltre a essere, questa proprietà, molto utile in
termini di favori e sfavori, in un paese noto per il suo capitalismo di
relazione e la sua politica di relazione. Ora tutto questo non gli serve più e
a fine pena probabilmente si trasferirà direttamente a New York, del resto è
cittadino americano. E poi, diciamolo, l’intera Gedi gli era costata meno di
Cristiano Ronaldo.
Perché Carlo
de Benedetti ha regalato le testate ai figli disinteressati e incapaci?
Questo, invece, non lo so. Forse a ottant’anni si sentiva stanco; e dei figli –
delle loro intenzioni – non aveva capito niente. In ogni caso quella
disgraziata decisione fa di lui (che pure è stato un editore corretto) un
responsabile colposo del disastro successivo. Ed è un po’ spiacevole che in
questi ultimi anni non abbia mai voluto dire una parola di scuse ai suoi ex
giornalisti e ai suoi ex lettori per quell’incautissima scelta.
Di tutte le
cause profonde che hanno portato alla catastrofe ce n’è una sopra le altre?
Sì: oltre al declino globale dell’editoria, è stata letale la fine dello
spirito collettivo, della sensazione comune di svolgere una funzione culturale
e civile per il paese, di essere noi tutti – insieme – un presidio di
democrazia al servizio della società, della laicità, dell’apertura mentale e
del progresso sociale. Quando questo sentimento è svanito – e siamo diventati
solo impauriti prestatori di manodopera intellettuale – è finita la peculiarità
del Gruppo editoriale l’Espresso-Gedi. E le nostre testate hanno iniziato a
crollare a una velocità maggiore – a volte quasi doppia – di tutte le altre.
Infine: cosa
sarà adesso di Repubblica, se cadrà davvero nelle mani di un
armatore greco di destra, socio della dittatura saudita?
L’impressione
è che resterà poca cosa, perfino più sradicata di adesso rispetto alle sue
origini, utile solo all’armatore in questione per entrare nei salotti buoni
dell’Europa che conta, lui che ha un impero ancora confinato in un paese
piccolo e secondario, attorno al cinquantesimo posto nelle economie del mondo,
e vuole invece essere protagonista nella sesta o settima potenza globale,
magari come trampolino per avvicinare la quarta o la terza.
È il
neocapitalismo, bellezza.
***
(Alessandro
Gilioli - MicroMega - Giornalista, già vicedirettore dell'Espresso e
direttore di Radio Popolare).