Ucraina, i russi hanno usato una superbomba. Kiev prevede: 'Mosca senza risorse entro la fine della primavera'

 

L'economia russa non sarà in grado di sostenere la guerra di aggressione in Ucraina dopo i prossimi tre mesi. Lo riporta - riferisce l'Ansa - Ukrinform citando il capo dell'intelligence militare ucraina, Kyrylo Budanov: "La Russia ha sprecato enormi quantità di risorse umane, armamenti e materiali, e la sua economia e la sua produzione non sono in grado di coprire queste perdite". Inoltre, aggiunge Budanov, Mosca "ha cambiato la sua catena di comando militare: se l'esercito russo fallirà nei suoi obiettivi questa primavera, esaurirà i suoi strumenti di guerra".

 

I russi hanno usato per la prima volta in Ucraina - riporta il sito Defense Express -, che cita fonti anonime una nuova potente bomba guidata del peso di 1,5 tonnellate progettata per colpire obiettivi altamente protetti a una distanza fino a 40 km grazie ai suoi 1.010 kg di esplosivo ad alto potenziale.

 

Si tratta della bomba planante UPAB-1500B, mostrata per la prima volta in Russia nel 2019. L'ordigno è stato usato qualche settimana fa nella regione di Chernihiv, nel nord dell'Ucraina. Non si conosce quale sia stato l'obiettivo. Lunga 5,05 metri con un diametro di 40 centimetri, la bomba può essere sganciata fino a 15 km di un'altitudine.

Le perdite russe ammontano fino a 500 soldati morti e feriti ogni giorno nella battaglia per la conquista della città strategica di Bakhmut, nell'Ucraina orientale: lo ha detto al domenicale tedesco Bild am Sonntag il ministro della Difesa ucraino Oleksiy Reznikov. Il ministro ha definito i soldati russi "carne da macello" nell'ambito di una "tattica tritacarne" usata da Mosca. 

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Meloni vola ad Abu Dhabi per nuovi accordi con gli Emirati

 

La presidente del Consiglio Giorgia Meloni è ad Abu Dhabi per la visita di due giorni negli Emirati Arabi Uniti, seconda tappa - dopo l'India - della missione del capo del Governo. Nella delegazione anche il vicepresidente del Consiglio e ministro degli Esteri, Antonio Tajani. Ad accoglierli l'ambasciatore d'Italia negli Emirati, Lorenzo Fanara, e il ministro dell'Industria e della tecnologia avanzata e presidente designato della Cop28, Sultan Al Jaber. 

 

La missione della premier si è aperta proprio con l'incontro, in una sala dell'aeroporto, con il ministro Al Jaber per rinforzare la cooperazione tra i due Paesi in vista della presidenza assunta dagli Emirati Arabi dei lavori della Cop28, la conferenza delle Nazioni unite sui cambiamenti climatici, in programma dal 30 novembre al 12 dicembre a Dubai.

 

' previsto l'incontro con il presidente degli Emirati Arabi Uniti, sceicco Mohamed bin Zayed Al Nahyan, in occasione del quale saranno firmati una dichiarazione d'intenti sul partenariato strategico, una dichiarazione sulla cooperazione rafforzata nell'ambito della Cop28 che inquadra l'Italia come partner strategico sui temi ambientali e della lotta al cambiamento climatico, e un accordo di cooperazione fra Eni e ADNOC che coprirà diversi ambiti della transizione energetica.

 

La visita della premier punta a rilanciare le relazioni bilaterali fra i due Paesi dopo che i rapporti si erano raffreddati, negli anni scorsi, a causa delle problematiche legate alla vicenda Etihad-Alitalia e allo stop all'export di armi deciso durante il secondo governo Conte. In una visione di prospettiva, poi, l’obiettivo della missione negli Emirati è il rafforzamento del dialogo con tutta l’area del Golfo e la collaborazione bilaterale in tutti gli ambiti, con particolare riferimento al settore ambientale ed energetico. Ad Abu Dhabi, a quanto si apprende, è atteso anche l'amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi.

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Finlandia: il parlamento approva l'ingresso nella Nato

 

HELSINKI - Il Parlamento finlandese ha approvato, a stragrande maggioranza, l'ingresso nella Nato, per il quale sono però ancora indispensabili le ratifiche di Ungheria e Turchia.

I parlamentari finlandesi hanno votato per approvare una legge che autorizza l'ingresso della Finlandia nell'alleanza militare occidentale, con 184 voti a favore e 7 contrari.

 

La notizia è stata accolta con grande favore dalla popolazione finlandese, che da quando è partita l'aggressione della Russia all'Ucraina hanno cominciato a preoccuparsi seriamente del loro futuro. Il paese confine per oltre mille chilometri con la Russia.

 

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La lussuosa vita di Alina Kabaeva, moglie "segreta" di Putin. Possiede proprietà per 120 milioni di dollari

 

Un lungo reportage di Proekt, media russo indipendente, rivela la vita lussuosa di quella che viene considerata la moglie segreta di Putin. Il reportage, finora non smentito da Mosca, è stato ripreso da "Affaritaliani.it".

 

Alina Kabaeva, ex ginnasta olimpica che l'opinione pubblica indica come la moglie segreta del presidente russo Vladimir Putin o quanto meno come la madre dei suoi ultimi figli, vive in Russia in un appartamento di 2600 metri quadrati e 20 stanze situato a Sochi.

Tutto ciò - scrive Affaritaliani.it - lo scopriamo dal racconto di Proekt, un media russo indipendente specializzato in giornalismo investigativo che, in un lungo reportage dedicato alla vita sontuosa di Putin, descrive la vita di coppia di Putin e della "zarina". 

 

L'appartamento in cui vive la donna è un attico che nel 2011 fu definito "il più grande" della Federazione russa: un appartamento con piscina, cinema, patio e un eliporto sul tetto che però non è la sua residenza stabile.

 

L'enorme attico si trova nel complesso residenziale di Royal Park, un appartamento messo in vendita nel 2009 per 450 milioni di rubli (l'equivalente di 15 milioni di dollari) e che fu poi acquistato due anni dopo per soli 90 milioni (3,2 milioni di dollari all'epoca), ovvero un quinto del valore inizialmente dichiarato. Secondo i giornalisti di Proekt, a gestire l'operazione fu Oleg Rudnov, uomo vicinissimo a Putin.

 

Il "tesoretto" che paga la vita di Putin e del suo entourage

La zarina trascorre buona parte dell'anno a Valdai, una regione nota per le sue colline e i laghi, situata a metà strada tra S. Pietroburgo e Mosca. E a Valdai la ginnasta, come viene chiamata, vive con il dittatore russo in un sontuoso palazzo, usando i fondi di una società offshore cipriota (ovvero registrata a Cipro ma che sviluppa il proprio business altrove, in questo caso in Russia), la Ermira Consultants, che è il “tesoretto” a cui attingono Putin e il suo entourage. Ermira controlla la società Real Invest, proprietaria del marchio di vodka Putinka, che assicura i proventi. 

 

Fino al 2015 la società era di proprietà di un prestanome, un avvocato di San Pietroburgo, Vladislav Kopilov; ma in realtà i conti Ermira hanno pagato gli acquisti per Putin e i suoi parenti. Kabaeva vive nelle sue proprietà insieme alle sorelle e alle cugine, cinque donne che non la lasciano mai e "l'aiutano in tutto". Per Kabaeva e i suoi figli è stato anche costruito a Valdai un terem, una residenza separata sulla scorta di quelle che, nella Russia degli zar, venivano riservate alle elite aristocratiche femminili.

 

Secondo Proekt, Kabaeva possiede al momento proprietà immobiliari per un valore di 120 milioni di dollari. Altri tre appartamenti nella località sul Mar Nero sono registrati a nome della nonna della ginnasta. 

 

I figli di Putin e l'ex ginnasta olimpica Alina Kabaeva

Da quel che racconta il reportage di Proekt, il primo figlio di Putin e Kabaeva è nato nel 2015 in una costosa clinica in Svizzera, il secondogenito probabilmente nella primavera del 2019, stavolta nel territorio della Federazione Russa.

 

La ferrovia segreta di Putin

Nel 2021, aggiunge Proekt, è stato costruito un molo per barche vicino al terem di Kabaeva, dal quale è possibile attraversare a nuoto il canale e ritrovarsi in un parco di 28 ettari, i territori superprotetti del Parco Nazionale Valdai. Il fatto che siano aree potette non ha impedito la costruzione, nel 2018, proprio sulle terre appositamente protette, di una ferrovia segreta per Putin e i suoi parenti: un progetto con diverse diramazioni e stazioni ferroviarie segrete che i cittadini comuni non possono usare ma che sarebbe diffuso in tutto il Paese.

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Macron cerca di far ripartire le relazioni della Francia con l’Africa. Un piano ambizioso difficile da realizzare

di Pierre Haski - France Inter

 

PARIGI - Nessuno potrà rimproverare al presidente francese Emmanuel Macron di non aver capito che l’Africa sta cambiando e che la Francia deve ripensare il suo approccio al continente. Macron l’aveva già dimostrato dopo la sua elezione nel 2017, in un discorso pronunciato a Ouagadougou, in Burkina Faso, davanti a un gruppo di studenti. Nel 2021 ha ripetuto il concetto in occasione del vertice Francia-Africa di Montpellier, ancora una volta davanti ai giovani. Il 27 febbraio, infine, ha illustrato i contorni di un’altra politica di rottura con il passato, che sembra non passare mai. Il tutto alla vigilia di un importante viaggio in Africa centrale (Gabon, Angola, Congo, Repubblica Democratica del Congo).

 

Il problema è che questo cambiamento di rotta è difficile da realizzare a causa del peso della storia coloniale e postcoloniale, e dei vecchi riflessi della Francia. Tra l’altro, in questo momento Parigi è sulla difensiva: la partenza forzata delle truppe francesi dal Mali e dal Burkina Faso, insieme alla guerra dell’informazione condotta dalla Russia per creare sentimenti antifrancesi nei paesi africani, è solo la parte visibile di un malessere profondo.

 

Per affrontare la situazione Macron vorrebbe attuare un cambio di atteggiamento, sostenuto da una convinzione forte: l’Africa rappresenta il futuro della Francia e dell’Europa, dunque non bisogna permettere che il contesto attuale si cristallizzi, e che la distanza tra il nord e il sud del mondo – apparsa evidente con la guerra in Ucraina – continui ad aumentare.

 

È difficile far scomparire pratiche decennali con un semplice annuncio

 

Per Macron la posta in gioco è esistenziale. “Per un paese come il nostro sarebbe terribile non trovare posto in un continente che è nostro vicino e che sarà uno dei grandi poli del ventunesimo secolo dal punto di vista demografico, economico e culturale”, ha spiegato.

 

Tuttavia, com’è successo nel 2017 e nel 2021, ci sono sfide difficili da affrontare, a cominciare dal convincere l’Africa che la politica francese è davvero cambiata. “La Francia non ha più un pré carré”, ha ribadito Macron. L’espressione “pré carré” (che si potrebbe tradurre con “giardino privato”) è legata alla Françafrique, e indica la zona d’influenza in cui Parigi faceva e disfaceva i regimi. Tuttavia è difficile far scomparire pratiche decennali con un semplice annuncio.

 

Macron riconosce in particolare di essersi lasciato monopolizzare dalla questione della sicurezza in Sahel, dove l’intervento della Francia è visto solo attraverso questa lente. Per questo motivo, il 27 febbraio ha annunciato una riforma profonda della presenza militare francese in Africa , un test per il nuovo corso.

 

La Francia può contare su tre risorse importanti nel suo “ritorno” in Africa. La prima è la presenza di una forte diaspora africana in Francia, che Macron vorrebbe trasformare in un ponte, superando le riluttanze nazionali. “Bisogna abbracciare la parte africana della Francia”, ripete il presidente. Di sicuro, molte orecchie non gradiranno queste parole.

 

 

La seconda risorsa è l’europeizzazione della politica africana, come dimostra il fatto che Macron porterà con sé due commissari dell’Unione europea nel suo viaggio (il commissario per il mercato interno e la commissaria per i partenariati internazionali). La presenza dell’Europa permette di smorzare la reazione epidermica rispetto alla Francia e di raggiungere, per esempio, una dimensione adatta per i progetti infrastrutturali.

 

La terza risorsa è più una speranza che una realtà, ed è quella che la società francese, dalle aziende alla cultura, torni a investire in Africa passando per la società civile. Oggi non è così, ed è una debolezza. Un nuovo approccio all’Africa sarà possibile soltanto se, paradossalmente, la società civile francese riuscirà ad aggirare lo stato e le sue pesantezze. È una sfida colossale.

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(Pierre Haski è un giornalista francese, tra i fondatori del sito d’informazione Rue89. Ha una rubrica quotidiana di politica internazionale su radio France Inter, pubblicata ogni mattina sul sito di "Internazionale" - Traduzione di Andrea Sparacino - Sostenete Internazionale con un abbonamento)

 

 

 

Austria, it’s time to join Nato. Vienna can't remain neutral, balancing interests of Russia and the West, while being part of the West

By Liam Hoare - "Politico"

 

 

In many European countries, Russia’s invasion of Ukraine has led to a fundamental rethink of long-standing security and foreign policy doctrines.

Admittedly, the most notable shift, Germany’s Zeitenwende (turning point) has been far from smooth, and Chancellor Olaf Scholz has seemingly tended to do the right thing only after trying other options first. But the fact remains that the country has pivoted away from Russian natural gas and is now donating tanks to the Ukrainian war effort.

 

 

Meanwhile, in May, the previously neutral Sweden and Finland formally submitted applications to join Nato; and there are signs that Turkey and Hungary — who have been holding up the ratification process — may now be softening their objections to this Scandinavian surge.

 

Austria, though, has not yet gone through a fundamental rethink. Yes, it did sign onto the European Union’s sanctions against Russia and its financial aid regime in support of Ukraine, but it has opted out of any military participation, citing its constitutionally anchored “permanent neutrality” — a stance that is no longer feasible.

 

Austria has neither exported weapons to Ukraine — even though it has 56 aging Leopard 2 tanks ripe for donation — nor has it participated in training Ukrainian forces. Imports of Russian gas are approaching pre-war levels, with 71 percent of Austria’s gas coming from Russia in December. And major Austrian companies like Raiffeisen Bank International and wood manufacturers Kronospan and EGGER remain active in Russia despite sanctions.

 

A coalition of politicians, diplomats, artists and businesspeople did, however, recently publish an open letter marking the first year of Russia’s invasion of Ukraine. Bemoaning the lack of serious political debate regarding Austria’s security policy, the ad-hoc coalition lamented that “large sections of domestic politics and society have fallen prey to the illusion that Austria can remain as it is,” adding that “important questions about the future of Austria, Europe, and the international order are being neglected.”

 

But in parliament, no party bar the liberal NEOS has sought to question Austria’s neutral status since the invasion began either. Indeed, the far-right Freedom Party, which currently leads in the polls, has embedded its opposition to European support for Ukraine in its rhetoric. And among the general public, a poll taken in May 2022 — the very month Finland and Sweden applied for NATO membership — showed that only 14 percent of Austrians favored doing the same, with a whopping 75 percent opposed.

 

It’s as though the clocks in Austria stopped dead on February 24, 2022.

 

 

The problem is Austria remains shackled to neutrality by the stories it tells itself. The first of these is that neutrality was the price the country had to pay to end the postwar Allied occupation and regain its independence in 1955.

 

The second is that neutrality and prosperity — the so-called “economic miracle” of the 1960s — are inherently bound together. That Austria wouldn’t have become a country with Western European living standards were the Soviets still in control of the country’s east.

 

And a third is that neutrality was the platform that allowed the country to play an outsized role in global affairs in the 1970s, when then-Chancellor Bruno Kreisky interceded in the Middle East peace process and sought to improve relations between the Global North and South.

 

All of these are more or less true — or, rather, they were.

 

The fall of the Berlin Wall meant that by 1990, Austria had gone from being a country at Europe’s periphery, on the fortified border between east and west, to one right at the Continent’s political center.

 

 

Austrian capital flowed east, Eastern European labor came west, and throughout the decade, the country became a natural destination for refugees fleeing former Serbian President Slobodan Milošević’s genocidal war. In 1995, Austria then joined the EU along with Sweden and Finland and signed up to NATO’s Partnership for Peace — members of its armed forces still participate in the peacekeeping missions in Kosovo and Bosnia-Herzegovina today.

 

Yet, despite all this, Austria continues to cling to its official permanent neutrality as if the face-off between Europe’s former military blocs — NATO and the Warsaw Pact — were still ongoing and as though it isn’t an EU member. But Austria’s prosperity, security and place in the world is no longer tied to neutrality as the public and political class still seem to think.

 

Quite the reverse.

 

Last year, over two-thirds of Austrian exports were sent to fellow EU member countries, and the country’s economic reach into Central and Eastern Europe is both broad and deep. You can’t visit Romania or the Western Balkans, for example, without falling over branches of Raiffeisen or Erste Bank, or without filling your car at an OMV gas station.

 

It’s time to accept that Austria’s neutrality-linked independent foreign policy went the way of Kreisky when he left office in 1983. And the fact that the U.N. and the Organization of Petroleum Exporting Countries, among others, call Vienna home is the legacy of a bygone era. Were Kreisky alive today, perhaps he would have sought to negotiate a Black Sea grain deal, but that role was played by Turkey — not Austria.

 

Today, on almost all nonmilitary matters, Austria’s foreign policy is the EU’s common foreign policy. The country is totally enmeshed in the Continent’s political and economic structures — but its Euro-Atlantic integration remains only half complete.

 

 

No longer a border state, Austria is almost fully surrounded by EU and NATO members — Germany, the Czech Republic, Slovakia, Hungary, Slovenia and Italy. Its military is little more than a natural disaster response unit, and it has effectively outsourced its security to its neighbors.

 

For Austria, neutrality has become an excuse to sit on its hands and do nothing while NATO supplies Ukraine’s military. The view that it can survive as a neutral country, balancing the interests of Russia and the West, while also being part of the West is no longer morally or politically tenable.

Austria should accept responsibility and join the NATO alliance.

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(www.politico.eu - Liam Hoare is the Europe editor for Moment Magazine and author of “The Vienna Briefing” newsletter on Austrian politics and culture)

 

 

Antony Blinken, eminenza grigia di Joe Biden, va in Asia centrale sulle orme di Lord Ellenboroug

di Emanueleì Pietrobon - InsideOver

 

Turkestan, crocevia dei grandi imperi eurasiatici e teatro di tornei di ombre tra gli aspiranti all’egemonia globale. Ieri Londra contro Mosca. Oggi Washington contro Mosca e Pechino, ma non solo. Ieri Edward Law, Charles MacGregor e la Compagnia britannica delle Indie orientali contro Bronisław Grąbczewski, Mikhail Chernyayev e Mikhail Skobelev. Oggi Antony Blinken all’inseguimento del sogno di Law, primo conte di Ellenborough e signore del Grande Gioco, ovvero la costruzione di un avamposto anglofono tra Turkestan e valle dell’Indo.

 

Viaggio ai confini di Russia e Cina

Il tour fra Turkestan e valle dell’Indo di Antony Blinken, l’eminenza grigia di Joe Biden, è iniziato il 28 febbraio e lo terrà lontano da casa fino al 3 marzo. Lo attendono quattro giorni di lavoro non-stop, che, dopo la puntata kazaka, lo condurranno nella storica fermata dell’antica Via della seta, l’Uzbekistan, con capolinea la fu perla della Corona britannica, l’India.

 

L’agenda centroasiatica di Blinken è fitta. La partecipazione alla riunione del C5+1, un formato di dialogo tra Stati Uniti e –stan istituito nel 2015 e che lui stesso ha contribuito a creare. Incontri separati, ai margini del C5+1, con gli omologhi dei paesi partecipanti. E tavole rotonde su cooperazione ambientale, economica, energetica e securitaria.

 

Nel nome della prevedibilità patrocinata da Biden, veterano della Guerra fredda, la Casa Bianca non ha fatto segreto dell’obiettivo ultimo dell’invio dell’abile Blinken nelle terre del Grande Gioco: “Strappare le repubbliche ex sovietiche dalle orbite cinese e russa”. Obiettivo che vede e vedrà gli sforzi dell’amministrazione Biden concentrati, in particolare, su Astana e Tashkent, cioè gli –stan più insofferenti verso l’egemonia regionale di Mosca, nonché i più scettici nei riguardi dell’invasione militare dell’Ucraina.

 

La Casa Bianca ha da offrire qualcosa sull’altare del riallineamento di Astana, che non per forza deve e/o dovrà significare schieramento nel campo occidentale – un non allineamento antagonistico a Mosca sarebbe più che sufficiente. Astana vuole capire se il gioco vale la candela, se potrebbe trattarsi di aiuto in caso di scenari di donbassizzazione – perciò il focus di Blinken sull'”impegno americano [a difendere] indipendenza, sovranità e integrità territoriale dei paesi centroasiatici”? –, e, nell’attesa di prendere una decisione, ha porto un ramoscello d’ulivo al messo arrivato da Washington: la chiusura della rappresentanza commerciale a Mosca.

 

L’India è tutto

L’India, il gigante anglofono che nel 2022 è diventato il Paese più popoloso del mondo, sarà uno degli obiettivi geostrategici di ogni amministrazione americana nei decenni a venire. Giacché dal posizionamento di Nuova Delhi sulla scacchiera globale, se a favore o contro l’Occidente, dipenderà parte significativa dell’esito della grande battaglia per la riforma del sistema internazionale.

 

Se le relazioni tra Pechino e Nuova Delhi non sono mai state semplici, quelle tra Washington e Nuova Delhi non sono state prive di incomprensioni e reciproche diffidenze. Nonostante l’appartenenza al Dialogo quadrilaterale di sicurezza (Quad), calcoli economici e sensibilità geografiche impediscono all’India di prestarsi nel ruolo di ariete lanciato contro la Cina. E nonostante la special relationship coi mercati occidentali e con l’Ucraina, tanto che si parla di Ucraindia, l’India non ha intenzione di aderire al regime sanzionatorio antirusso, che ha arricchito enormemente le industrie nazionali.

 

Blinken si recherà a Nuova Delhi nelle vesti ufficiali di partecipante all’Incontro dei ministri degli esteri del G20, che si terrà nella giornata del primo marzo, ma la speranza-aspettativa della diplomazia statunitense è la produzione di due bilaterali ai margini dell’evento: una con Sergej Lavrov, una con Qin Gang. Non per porre fine alla competizione tra grandi potenze, ormai entrata nel vivo, quanto per “mantenere aperti i canali di comunicazione”.

 

L’India, all’interno del Bidenverso, è una superpotenza in divenire che potrebbe rivelarsi fondamentale nei contesti del contenimento della Cina in una dimensione terrestre, per via del controllo esercitato sui mari dell’Oceano Indiano, e della riedizione in salsa multipolare del Grande Gioco, nel quale l’hindi è già diffuso e potrebbe trarre giovamento dalla ritirata americana dall’Afghanistan.

 

Continuare a corteggiare Nuova Delhi, onde evitarne l’appiattimento totale sulle posizioni di Mosca e Pechino, sarà uno degli imperativi che guiderà Blinken e successori. Far maturare i semi della zizzania sparsi nel Turkestan, per aggredire l’egemonia regionale declinante della Russia (e per destabilizzare le vie della Belt and Road Initiative), sarà un altro categorico di primo livello per Washington e alleati. La strada da percorrere è stata tracciata dagli antenati – divide et impera, guerre per procura, insorgenze, diplomazia della sterlina – ma resta da vedere se il finale sarà un remake dal sapore multipolare dell’entente anglo-russa per l’Asia.

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(Emanuel Pietrobon -  www.insideover.com  - scrive per vari portali specializzati e think tank, tra i quali InsideOver, Vision&Global Trends e Osservatorio Globalizzazione. Ha lavorato per la Commissione Europea e Wikistrat)

 

 

Credit Suisse, cosa è andato storto? Una grande banca che ha perso di vista le sue radici svizzere

di Matthew Allen - SWI Swissinfo

 

 

L’istituto bancario Credit Suisse ha subito enormi perdite finanziarie nel 2022 e ha annunciato una ristrutturazione che, per 9'000 persone, si traduce nella perdita del posto di lavoro.

 

Cosa è successo?

Credit Suisse è passata da uno scandalo all'altro: ha spiato un ex collaboratore, ha ricevuto una condanna penale per aver permesso a trafficanti di droga di riciclare denaro, è stata implicata in un caso di corruzione in Mozambico, un suo dirigente ha violato il confinamento durante la pandemia e ha visto i dati di dozzine di sue e suoi clienti legati alla scena del crimine essere rivelati dai media nel corso di un’inchiesta internazionale.  

 

La credibilità della banca è stata ulteriormente macchiata da investimenti nella società finanziaria britannica Greensill Capital e nella statunitense Archegos Capital Management, entrambe collassate nel 2021.

 

È improbabile che i 10 miliardi di dollari di fondi della clientela investiti in Greensill saranno totalmente recuperati e, benché non sia l'unica banca a essersi scottata con Archegos, Credit Suisse ha subito perdite (5,5 miliardi di dollari) molto più ingenti della concorrenza.

 

L'autorità di vigilanza finanziaria elvetica ha bacchettato l'istituto per aver deliberatamente ignorato più di 100 segnali di pericolo mentre si avvicinava all'orlo del baratro all'inseguimento di profitti illusori.

 

Com’è successo?

Identificare una cultura del rischio autodistruttiva è facile con il senno di poi. Più difficile è spiegare perché è stato permesso che tutto ciò accadesse, tenendo conto del fatto che molti analisti e analiste ritengono che i rischi fossero facili da individuare, se non ovvi.

 

Il dito è puntato sulla dirigenza della banca. L'ex CEO di Credit Suisse Oswald Grübel dice che il marcio è iniziato quando è stato rimpiazzato nel 2007 dal responsabile delle attività bancarie d'investimento, lo statunitense Brady Dougan. 

 

"L'investment banking era l'unica attività che gli interessasse", ha affermato Grübel al quotidiano Blick in ottobre. "L'ha ampliata poiché è lì che si trovano i più grandi incentivi finanziari. Il private banking e il business incentrato sulla Svizzera non erano nelle sue priorità". 

 

Benché il successore di Dougan avesse annunciato una maggiore prudenza dopo la partenza di quest'ultimo nel 2015, sembra che alle parole non siano seguiti i fatti. 

 

Diverse persone responsabili dei rischi e della conformità, assunte dopo che Dougan aveva lasciato la banca, sono tra i quadri messi alla porta durante l'ultimo tracollo finanziario. Altri analisti e analiste  danno la colpa a Urs Rohner, presidente del consiglio di amministrazione di Credit Suisse tra il 2011 e il 2021. 

 

Le conseguenze

Il risultato finale si traduce in crescenti perdete finanziarie, il crollo del prezzo delle azioni (84 franchi nel 2007, circa 3 oggi), un esodo di clientela ricca e la rapida erosione della credibilità.

 

La banca è così radicata nell'economia svizzera da essere definita "too big to fail" (troppo grande per fallire) dall'autorità di vigilanza finanziaria. 

 

Tuttavia, Credit Suisse ha anche un altro importante, anche se meno tangibile, valore. La banca è stata fondata nel 1856 dal noto industriale Alfred Escher per finanziare il sistema ferroviario elvetico, un pilastro fondamentale della rinascita industriale del Paese. 

 

Ciò potrebbe spiegare perché così tante persone in Svizzera criticano le attuali derive finanziarie anglosassoni che indeboliscono le radici elvetiche dell'istituto bancario.

 

Verso una rinascita?

La nuova direzione ha lanciato una grande ristrutturazione che prevede il taglio di parte delle sue unità di trading più rischiose, la soppressione di molti posti di lavoro e l'iniezione di capitale aggiuntivo, soprattutto dal Medio Oriente.

 

"La banca costruirà sulla base delle rinomate competenze di gestione patrimoniale proprie del settore bancario svizzero", ha promesso Credit Suisse nell'ottobre del 2021.

 

"Resteremo concentrati nel dirigere la nostra trasformazione culturale, lavorando al contempo al miglioramento dei nostri processi di gestione del rischio e di controllo", ha affermato l'attuale presidente di Credit Suisse Axel Lehmann. Non è la prima volta che si parla di un punto di svolta per il gruppo bancario negli ultimi anni.

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Cronologia degli eventi chiave

 

Febbraio 2020: Il CEO Tidjane Thiam è obbligato a dimettersi sull'onda dello scandalo riguardante l'assunzione da parte della banca di detective privati per spiare un ex dirigente.

 

Marzo 2021: il crollo di Greensill Capital e Archegos Capital Management espone la banca a perdite miliardarie.

 

Aprile 2021: Il presidente del Consiglio di amministrazione Urs Rohner (in carica dal 2011) presenta le dimissioni. Aveva annunciato la sua intenzione di partire l'anno precedente.

 

Ottobre 2021: La banca è multata per 475 milioni di dollari per il suo ruolo nello scandalo di corruzione in Mozambico conosciuto come la truffa dei "Tuna bond".

 

Gennaio 2022: Il presidente del gruppo, Antonio Horta-Osorio, è obbligato a dimettersi dopo aver violato le regole del confinamento legate al Covid-19 per assistere al torneo tennistico di Wimbledon.

 

Febbraio 2022: Un informatore consegna ai media i dati di 18'000 clienti. Questa fuga di informazioni è nota come "Suisse secrets".

 

Giugno 2022: Credit Suisse è la prima banca nazionale a essere condannata penalmente per riciclaggio di denaro in Svizzera, in relazione a un'organizzazione bulgara di traffico di droga.  

 

Luglio 2022: Il CEO Thomas Gottstein è allontanato e sostituito da Ulrich Körner.

 

Ottobre 2022: Körner e il presidente Axel Lehmann annunciano il taglio di 9'000 posti di lavoro e un aumento di capitale di 4 miliardi di franchi.

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(Matthew Allen  www.swissinfo.ch  traduzione di Zeno Zoccatelli)

 

 

INVESTIMENTI ALTERNATIVI

 

Gli orologi di lusso usati vanno meglio di Wall Street. Morgan Stanley: il mercato terrà anche nel 2023. Ecco i motivi

di Paola Jadeluca – Financialounge

 

ROMA - Li hanno sempre chiamati i “Big Four”: Rolex, Audemars Piguet, Patek Philippe e Richard Mille, perché insieme coprono oltre il 40% del mercato dell’alta orologeria e realizzano il  61% dei profitti totali dell’industria svizzera degli orologi. Ora però gli analisti di Morgan Stanley, che monitorano costantemente il settore, si sono focalizzati sui primi tre, i “Big Three” perché insieme le tre case rappresentano circa il 70% del mercato secondario degli orologi e con il loro peso decidono la direzione del mercato. 

 

Monitorare l'evoluzione del prezzo degli orologi di seconda mano, evidenziano gli analisti di Morgan Stanley in un recente report, è interessante per gli investitori azionari in quanto, in generale, è il barometro della desiderabilità di un marchio e quindi del potere di prezzo futuro, della traiettoria di crescita.

 

NESSUN ALLARME


A inizio anno s’è levato il warning sulla contrazione dei prezzi dell’usato di alta gamma con previsioni di ulteriore rallentamento nei prossimi mesi. Ma guardando proprio ai Big Three, il trend appare sotto una luce diversa. Nonostante uno sviluppo negativo, infatti, Morgan Stanley ritiene che non ci sia, per ora, motivo di allarme per quattro diversi motivi.

 

ASSET VINCENTE


In primo luogo, quasi tutte le classi di attività sono diminuite finora negli ultimi 18 mesi, ma il mercato degli orologi di seconda mano in realtà ha registrato la migliore tenuta ad altri, per esempio rispetto allo stesso S&P. In secondo luogo, rispetto alla storia, i prezzi dell'usato sono ancora a un buon livello rispetto ai prezzi degli orologi nuovi in generale. In terzo luogo, la contrazione dei prezzi è stata (finora) ordinata considerando il forte aumento dell'offerta, in funzione del fatto che la domanda è rimasta forte.

 

TITOLI QUOTATI


In quarto luogo, e qui arriviamo ai Big Three, il calo dei prezzi sul mercato dell'usato nel quarto trimestre del 2022 e a gennaio del 2023 è quasi interamente in funzione dei prezzi di tre marchi di fascia alta - Patek, Audemars e Rolex -, quindi, nel complesso, i prezzi sul mercato dell'usato non dovrebbero essere motivo di preoccupazione per gli investitori del mercato azionario su titoli come Richemont e Swatch Group, tra i pochi dell’industria orologeria quotati in Borsa, tanto più che la riapertura del mercato cinese, mercato chiave, stimolerà le vendite di nuovi orologi quest'anno.

 

BIG THREE SCAMBIATI AL DI SOPRA DEL RETAIL NUOVO

 

Restando invece sul piano dell’usato, la contrazione dei Big Three è stata minima, oscilla tra -1% fino a un massimo del 6,8%. Però, contando questi tre brand per tre quarti, l’impatto sul mercato complessivo è stato forte. Si tratta, tuttavia, di una fase di normalizzazione dei prezzi. E gli orologi delle migliori marche continuano a essere scambiati al di sopra del loro prezzo al dettaglio nel mercato dell'usato. La capacità di un marchio di mantenere il valore sul mercato secondario è sempre più considerata un indicatore della desiderabilità del marchio.

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(Paola Jadeluca giornalista di Repubblica per oltre 30 anni, curatrice del settimanale Affari & Finanza, esperta, tra l'altro, di vini e cucine - www.financialounge.com)

 

 

 

OBS MAGAZINE

 

TROMBADORI APRI' LE OSTILITA'

 

Quando "Riso amaro" divise la sinistra italiana. Una nuova monografia sul capolavoro di Giuseppe De Santis

di Paolo Speranza

 

Gli applausi a scena aperta al Festival di Cannes, la nomination all’Oscar per il miglior soggetto originale (nel 1951) e intanto un trionfo al box office, con la silhouette della mondina sexy Silvana che campeggiava davanti ai cinema di tutto il mondo, mettendo in ombra persino “Gilda” Hayworth e le più celebri star di Hollywood.

 

UN SUCCESSO PLANETARIO

 

Un successo di quelle proporzioni il regista e i produttori di Riso amaro non potevano proprio immaginarselo. E in effetti il film incassò in Italia più di 350 milioni di lire, per i tempi una cifra ragguardevole, ma soprattutto superò a livello internazionale tutti gli incassi dei film fino ad allora prodotti nel dopoguerra in Italia.

 

“Il film ebbe negli Stati Uniti – ha scritto George Sadoul - un successo superiore addirittura a quello di Paisà e di Sciuscià. E rivelò tre divi italiani di prima grandezza: Silvana Mangano, Raf Vallone e Vittorio Gassman”, che grazie a Riso amaro diventarono di colpo star internazionali. Per qualche tempo persino al “regista rosso” De Santis si spalancarono le porte delle industrie cinematografiche più importanti e si placò il tenace boicottaggio messo in opera nei suoi confronti, prima ancora dell’uscita del film, da settori del governo e da una burocrazia rimasta ancora clerico-fascista.

 

Sull’onda di questi straordinari riscontri, si profilava per Riso amaro la possibilità di diventare un film epocale, il nuovo prototipo di un cinema italiano che per spessore artistico già primeggiava nel mondo, grazie al Neorealismo, ma pur senza discostarsi dai suoi princìpi di fondo cominciava ad avvertire la necessità di adeguarsi ai tempi ed alle esigenze del pubblico. Per De Santis, a sua volta, sembrava a portata di mano la definitiva consacrazione autoriale, che lo avrebbe posto nel mondo sullo stesso piano dei “giganti” Rossellini, De Sica e Visconti.

 

Quel film, in realtà, consacrò soprattutto i suoi interpreti e i produttori.

Per la Lux fu l’occasione per ribadire il suo primato in Italia e proiettarsi con sempre maggiore convinzione sui mercati internazionali, e per l’”emergente” Dino De Laurentiis Riso amaro costituì il decisivo salto di qualità nella carriera, suggellato dal matrimonio con la bellissima Silvana Mangano, per la gioia dei settimanali di gossip.

 

Solo per De Santis, nonostante il travolgente successo del film, il riso non fu altrettanto dolce. Certe incomprensioni nell’ambiente del cinema, la successiva presa di distanza dal film da parte di Gassman e della Mangano (che pure tornò a lavorare con il regista, sette anni dopo, in Uomini e lupi) e soprattutto l’imprevisto “fuoco amico” di una parte della sinistra politica provocarono nel regista di Fondi delusione e sconcerto, trasformando quello straordinario momento della sua carriera in un “trionfo amaro”.

 

“FUOCO AMICO”

 

Ad aprire le ostilità fu addirittura un amico di vecchia data di De Santis, Antonello Trombadori, che con lui aveva condiviso, oltre agli ideali antifascisti e alla militanza partigiana, anche l’esperienza di critico sulla rivista “Cinema” e l’apporto al nascente Neorealismo. Elemento di spicco della giovane intellighenzia del “partito nuovo” di Togliatti, Trombadori interviene il 25 settembre del ’49 sul settimanale comunista “Vie Nuove” per assumere Riso amaro come paradigma di una questione cruciale come “la realtà nell’arte”, giudicandolo inadeguato sotto il profilo ideologico, pur riconoscendo al “comunista De Santis” e ai suoi sceneggiatori di “saper cogliere episodi e fatti veri”.

 

In ossequio all’estetica del “realismo socialista”, di cui era massima autorità l’ideologo sovietico Andrej Zdanov (deceduto l’anno precedente ma ancora venerato nell’orbita staliniana), Trombadori disapprova la centralità attribuita nel film al personaggio negativo di Silvana e, di converso, negata alla figura “redenta” della ex ladra Francesca e, più in generale, ad una categoria di lavoratrici sane e operose come le mondine, “dalla cui vita si libera ad ora ad ora una lezione morale, quanto rivoluzionaria!”.

 

La posizione di Trombadori si rivelò tutt’altro che isolata nella sinistra politica e sindacale. Nel giro di pochi giorni le redazioni de “l’Unità” e quella di “Vie Nuove” furono subissate di interventi e lettere sul film – di diverso segno – al punto che tutta la stampa comunista si decise ad ospitare una sorta di “tribuna aperta” sul “caso” Riso amaro. Sulla linea di Trombadori, ma con argomentazioni meno auliche, si collocarono soprattutto dirigenti della Cgil piemontese ed emiliana (area di provenienze di molte mondine), preoccupati di difendere l’immagine di una categoria di lavoratrici, che – a loro dire – era rimasta refrattaria alle nuove mode arrivate da oltreoceano. Altro che il boogie-woogie e i sogni frivoli di Silvana, insomma: per le lavoratrici delle risaie c’era spazio solo per la polka e per i progetti matrimoniali e di lavoro.

 

Non fu da meno l’“Avanti!”, organo del Partito Socialista: nella stampa di sinistra, per quanto in maniera meno gretta rispetto alle testate cattoliche, riaffiorava l’accusa ai produttori e allo stesso regista di aver cinicamente sfruttato la carica erotica della Mangano per il successo del film, del quale l’operazione di “lancio” promozionale aveva fin dall’inizio oscurato gli aspetti più drammatici e i risvolti sociali.

 

Nel giro di poche settimane era stata ribaltata la lusinghiera accoglienza riservata al film da “l’Unità” il 9 settembre, in occasione della “prima” mondiale a Cannes, quando l’autorevole critico Ugo Casiraghi aveva definito Riso amaro un film “spettacolare e avvincente”, che indicava una nuova via “verso il realismo, coraggiosa ed aperta”.

 

L’INTERVENTO DI MUSCETTA

 

Per la piega ideologica presa dal dibattito, ormai, non era più sufficiente il discorso sullo “specifico filmico”, del quale peraltro nessuno, a sinistra, metteva in dubbio il valore: erano ormai in gioco princìpi fondamentali, dal rapporto tra forma e contenuto nell’arte all’idea stessa di libertà degli artisti, in primo luogo di quelli marxisti.

 

Un tema congeniale per un intellettuale brillante e polemico come Carlo Muscetta, tra i più in vista nella Commissione Cultura del Pci e nella casa editrice Einaudi, che il 9 ottobre su “Vie Nuove” si schierò apertamente pro-De Santis, tacciando Trombadori di promuovere, “nonostante la fraseologia di partito in cui si ammanta”, una concezione estetica reazionaria e oscurantista, anacronisticamente legata alla prevalenza assoluta del contenuto sulla forma artistica. “Un contenuto può essere anche repugnante alla nostra concezione morale e politica del mondo, ma se ha trovato la sua espressione artistica, in certo modo si è posto in un piano superiore, nel quale noi possiamo e dobbiamo apprezzare questa avvenuta liberazione rivoluzionaria del contenuto stesso. Come diceva Gramsci, noi possiamo aderire esteticamente e cioè in modo distaccato, disinteressato e sereno, anche a un mondo artistico che non susciti la nostra approvazione e la nostra partecipazione integrale e totale”, è il passo saliente dell’intervento di Muscetta, pubblicato col titolo L’arte e la critica.

 

La qualità, e l’asprezza, del dibattito su Riso amaro (nel quale intervennero, per citare solo gli artisti e i critici più famosi, Renato Guttuso, Giacomo Debenedetti, Umberto Barbaro, il filosofo Galvano Della Volpe, il direttore dell’edizione torinese de “l’Unità” Davide Lajolo) furono tali che De Santis si decise infine a chiedere l’intervento in prima persona del segretario del Pci Palmiro Togliatti, invitandolo ad una proiezione nella sede della Lux. La convinta approvazione da parte del “Migliore” (“mi disse di non preoccuparmi e di andare avanti”, ricorderà il regista) mise la parola “fine” a un dibattito culturale che, per dimensione e pathos ideologico, non aveva precedenti in Italia: solo sei anni dopo, per il romanzo Metello di Vasco Pratolini, si sarebbe di nuovo registrata una polemica di tale portata – ancora una volta sulla definizione di “realismo” nell’arte – ma più circoscritta al cotè intellettuale (e sempre con Muscetta in primo piano, stavolta nelle vesti di “pubblico ministero”).

 

Un dibattito che oggi viene rievocato, insieme a numerose immagini e a documenti rari sul film, in una monografia edita da Gremese nella collana “I migliori film della nostra vita”.

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(Paolo Speranza storico, saggista e docente)

 

 

 

UN FILM PROIBITO IN IRAN

 

 

"Holy Spider" primo noir sulla società killer degli Ayatollah. Le matrici della ‘punizione esemplare’ di Mahsa Amini

di Teresa Marchesi - Huffington Post



ROMA - Abbiamo negli occhi le piazze iraniane in rivolta, le statistiche delle esecuzioni, dei pestaggi e degli arresti. Siamo informati, più o meno, sulle detenzioni arbitrarie di Jafar Panahi e di tanti registi sgraditi al regime. Holy Spider è un thriller, un film eminentemente di genere, ma ad altissimo potenziale, che costringe a riflettere sulle matrici della ‘punizione esemplare’ di Mahsa Amini e di tante sue consorelle, sulla profonda misoginia (l’espressione ‘maschilismo’ è inadeguata) che ispira la dittatura religiosa, culturale e politica degli Ayatollah.



Molti miei autorevoli colleghi (tutti maschietti, guarda caso) hanno espresso riserve sul film di Ali Abbasi che era a Cannes, dove la protagonista Zar Amir Ebrahimi è stata premiata come migliore attrice. Sono in totale disaccordo: è un film bello quanto brutale, tenebroso quanto appassionante. Sarà in sala con Academy Two.

 

Ali Abbasi è iraniano di nascita, ma naturalizzato danese. Il suo film è ovviamente proibito in Iran, ma almeno non rischia la galera come i suoi colleghi rimasti in patria. Holy Spider usa i codici hollywoodiani per ricostruire una cronaca degli anni 2000-2001, quando il regista non aveva ancora lasciato il Paese. Il serial killer Saeed Hanaei, rispettabile padre di famiglia e di saldi principi religiosi, strangolò col loro chador ben sedici prostitute prima di essere arrestato. E l’estetica hard di Abbasi non fa rimpiangere il suo notevole Border-Creature di confine, trionfatore a Un Certain Regard nel 2018.

 

Siamo nella città santa di Mashhad (ricostruita per necessità in Giordania), il killer continua a far vittime e da Teheran arriva la giornalista Rahimi, determinata a capire perché le indagini ristagnano. Uno stereotipo da cinema mainstream, certo, ma serve a farci capire perché a una donna senza marito si possa rifiutare una camera d’albergo e perché una lavoratrice licenziata per aver denunciato il proprio direttore molestatore passi universalmente per sgualdrina.



Il killer (Mehdi Bajestani), ex combattente devoto alla moglie, ai figli e all’Imam Reza, si sente in missione per conto di Allah, vuole cancellare dai luoghi sacri vizio e peccato. Peccato che è sempre e soltanto femmina: il poliziotto che dirige le indagini è pronto a stuprare la giornalista sgualdrina con la certezza del giusto.

 

 

Le stesse famiglie delle vittime ‘impure’ sono persuase che la ‘ripulitura’ del killer sia un aiuto supplente per le forze dell’ordine. Processato, il ragno santo (così soprannominato perché attirava le povere donne nella sua rassicurante ragnatela domestica) diventa un eroe per il suo quartiere e per buona parte dell’opinione pubblica, protetto e rassicurato dalle autorità (truffaldine anche con lui, per opportunismo politico) nonché modello d’ispirazione per il figlio ragazzino. “Non volevo girare un film su un serial killer ma su una società killer seriale”, dice il regista. Luoghi comuni, come ha scritto qualcuno? Ma quando mai.

 

I riferimenti occidentali del primo noir persiano di sempre (persiano di autore, non di produzione) sono sterminati: Zodiac per il narcisismo del killer e Collateral per l’angosciosa oscurità urbana, Summer of Sam, perché no, e il più bello di tutti, In the Cut di Jane Campion, che guarda caso non cita nessuno. Ma l’efferato rituale di morte di un cittadino perbene, reiterato con la sprezzante umiliazione dell’essere umano donna, toglie il fiato, livido e senza sconti grazie alla fotografia di Nadim Carlsen. Per molti critici maschi la ‘condizione femminile’, come la chiamano, è un tema banale e scontato : solo le metafore, il linguaggio indiretto, darebbero dignità a un film d’autore. Vivere in un Paese in cui il femminicidio è ordinaria amministrazione li ha forse anestetizzati?

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(Teresa Marchesi, critica cinematografica e regista, è tra le giornaliste italiane più brillanti, le cui prime esperienze di cronista sono cominciate alla Repubblica di Scalfari. Ha poi lavorato alla Rai come inviata speciale del Tg3 - Ora collabora a importanti giornali e riviste. Blog www.huffingtonpost.it)

 

 

 

EDITO DA 'LA NAVE DI TESEO'

 

Bernard-Henri Lévy sulla guerra in Ucraina. Esce in Italia, in anteprima mondiale, il nuovo libro "Dunque, la guerra!"

 

MILANO - In prima edizione in esclusiva mondiale, il prossimo 21 febbraio uscirà in Italia per la casa editrice "La nave di Teseo" il nuovo libro di Bernard-Henri Lévy dal titolo "Dunque, la guerra!".  A un anno dall’attacco russo a Kiev, l'autore vuole tracciare un’analisi lucida e dettagliata delle vere cause che infiammano l’Europa dell’Est da prima dello scoppio ufficiale delle ostilità.

 

Frutto di una lunga esperienza diretta della "questione ucraina" il volume, fra incontri e interviste con i massimi vertici delle gerarchie politiche ma anche con gli ultimi, con coloro che la guerra la patiscono ogni giorno, riporta la propria esperienza di BHL sul campo, dal fronte ucraino alle strade di Kiev, Odessa o Zaporizhzhia: “Ho intervistato uomini che avevano vissuto nascosti, per mesi, sotto le valanghe di acciaio; tutti, proprio tutti, dicevano che in nessun momento avevano pensato di fuggire; che mai, mai, hanno perso la fede nella vittoria”, spiega l’autore che già nel 2004, ai tempi della Rivoluzione arancione, aveva identificato l’Ucraina come “la nuova frontiera decisiva per l’Europa”.

 

E, spiega l’editore, “da allora, andando sul campo in prima persona, incontrando i protagonisti, anticipando spesso gli eventi, ha seguito tutti i passaggi del grande gioco diventato una guerra sanguinosa. In questo libro ne ricostruisce la genesi, indica le responsabilità dirette e indirette, e soprattutto lancia il suo appello, libero e veemente, per battere con la forza della pace e del pensiero l’arroganza di tutte le tirannie”.

 

Il libro, pubblicato nella collana Oceani per la traduzione di Sergio Arecco, ha peraltro posto le basi per un nuovo documentario che Levy porterà in giro per il mondo a partire da fine febbraio. Per La nave di Teseo di Bernard-Henri Lévy sono già usciti Looking for Europe – Cercando l’Europa. Contro il montare dei populismi (2019), Il virus che rende folli (2020) e Sulla strada degli uomini senza nome (2021).

 

Bernard-Henri Lévy è filosofo, giornalista, attivista e regista. Da oltre 40 anni la sua voce si leva con forza sui temi della morale e della contemporaneità. Ha scritto più di trenta libri, a partire da La barbarie dal volto umano (1977), con cui è diventato noto al grande pubblico. Ha pubblicato inoltre saggi biografici su Sartre e Baudelaire, una corrispondenza con Michel Houellebecq e molte opere di narrativa.

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FUGA DA PARIGI E APPRODO A CAPRI

 

I tormenti del poeta francese Jacques Fersen raccontati da Anna Kanakis in 'Non giudicarmi'. L'intervista

di Maggie S. Lorelli - La Voce di New York

 

 

Subire l’infamia del giudizio altrui, può capitare a chiunque. Tuttavia, per chi vive una condizione di minore tutela dei diritti civili, politici e sociali, può rappresentare un dolore che non conosce conforto. È il caso del barone Jacques d’Adelswärd Fersen, il protagonista omosessuale dell’ultimo romanzo di Anna Kanakis, Non giudicarmi (Baldini+Castoldi, 2022): un poeta e scrittore francese che, in fuga da una Parigi bigotta, dopo un’incarcerazione approda nell’isola di Capri dove, nella sontuosa Villa Lysis, “luogo sacro all’amore e al dolore”, nel 1923 pone fine alla sua vita.

 

L’autrice racconta, con un linguaggio essenziale, asciutto, e per questo ancor più intenso e lacerante, l’ultimo giorno di vita di Fersen che, attraverso un reticolo di ricordi a volte nitidi come dardi, a volte sfocati dall’assunzione delle droghe, evoca la sua parabola esistenziale. Anna Kanakis, che conosciamo soprattutto come attrice fascinosa e carismatica, non è nuova alla scrittura. Nel 2010 esordisce con il romanzo Sei così mia quando dormi. L’ultimo scandaloso amore di George Sand, e nel 2011 pubblica L’amante di Goebbels (entrambi per Marsilio Editori), manifestando una predilezione per il romanzo storico, che si conferma nell’ultima pubblicazione. Una narrazione che, fra le pieghe dolorose di un’esistenza emblematica, induce il lettore a riflettere sul concetto più che mai attuale della discriminazione come violazione dei diritti umani fondamentali.

 

Cosa ti ha attratto della figura di Jacques Fersen?

 

Dapprima la sua casa rifugio a Capri. Mi ci sono imbattuta per caso dopo aver visitato le rovine di Villa Jovis, dell’Imperatore romano Tiberio. Mentre camminavo per i vicoli, tra agavi e muretti a secco, improvvisamente mi si è aperto uno slargo dominato da un tempio bianco stile Luigi XVI, con grandi colonne, che portava sul peristilio una frase, che poi ho scoperto essere dello scrittore francese Maurice Barrès: amori et dolori sacrum. Mi ha incuriosito e, entrando da una piccola porticina, ho trovato ad accogliermi una ragazza con dei biglietti in mano, visto che oggi quella villa è museale. La ragazza mi ha raccontato un po’ della vita del proprietario: un uomo degli anni ’20, Jacques Fersen, che viveva lì in modo un po’ dissoluto. Girando fra le stanze, ho visitato la “camera dell’oppio”, il luogo in cui il barone ha spento i suoi giorni, “prima della fine del sogno”, come diceva Oscar Wilde.

 

Hai finito per innamorarti un po’ di Capri… Cosa differenzia la Capri di un tempo e quella attuale?

 

La Capri di un tempo era un rifugio. In particolare le terre-rifugio in Italia erano due: Capri e Taormina, dove risiedeva un fotografo tedesco molto famoso, Wilhelm von Gloeden, che a Taormina faceva splendide foto di ragazzi spogliati o quasi nudi, o vecchi, evidenziando particolari del loro corpo. Un grande artista anch’egli omosessuale. Sia a Capri che a Taormina gli artisti e gli intellettuali della Mitteleuropa trovavano un ambiente accogliente e non giudicante, che consentiva loro di sopravvivere a un continuo sguardo bieco o all’ilarità di molti, o al fastidio della famiglia.

 

Come accade al tuo protagonista…

 

La famiglia di Fersen non amava la sua condizione. Addirittura sua sorella si fece suora per espiare quella “colpa”. Negli anni ‘20, amare una persona dello stesso sesso infatti era considerata una colpa. Papa Francesco ha detto: “Chi sono io per giudicare? L’amore, anche omosessuale, non è una colpa!”.

 

Pensi che in Italia ci sia ancora un’omofobia diffusa tale da generare episodi di intolleranza come quelli subiti dal tuo protagonista?

 

Credo che il nostro Paese sia un po’ indietro rispetto a tante cose. I fatti di cronaca ce lo dimostrano.  Nel nostro sud, a cui appartengo per metà, ci sono famiglie che non accettano i figli considerati “diversi”. Al nord c’è forse una maggiore accettazione.

 

Cosa pensi si potrebbe fare per cambiare le cose?

 

Bisognerebbe fare un lavoro capillare nelle famiglie, nella scuola, nella società, per sensibilizzare l’opinione pubblica, a partire dagli eterosessuali, sul fatto che esiste una minoranza di omosessuali che ha i nostri stessi diritti e doveri. Nel nuovo corso politico ho colto un indurimento da parte di alcune figure apicali dell’attuale governo che si sono espresse in modo deciso sulla non contemplazione di un’apertura nei confronti del mondo omosessuale. E certo non si può contare sulla Sinistra, che in questo momento ha grossi problemi di identità.

 

Alcuni considerano una questione futile quella del linguaggio politically correct. Non credi che le parole a volte possano ferire più delle azioni?

 

Le parole sono pietre. Occorre usarle con grandissima cura e rispetto.

 

Anche i due precedenti scritti erano dei romanzi storici. Perché questa scelta?

 

Trovo affascinante raccontare al lettore qualcosa di realmente avvenuto, scovando dei personaggi poco noti, come l’amante di George Sand, Alexandre Manceau, un giovane incisore dell’età di suo figlio che ha amato perdutamente questa donna straordinariamente moderna per i suoi tempi, oppure Lída Baarová, un’attrice cecoslovacca che si innamora nel ’36 dell’“angelo caduto”, il Ministro della propaganda del Reich, Goebbels, per cui ho dovuto fare un faticoso lavoro di ricostruzione storica direttamente a Berlino.

 

Trovi che l’uomo impari dalla storia?

 

Questa è l’acme dell’intervista. Uno dei motivi per cui scrivo romanzi storici è perché dalla storia riesco a tradurre anche il presente. Sono però molto demotivata e frustrata dal fatto che ancora oggi si lancino delle bombe dopo tutto ciò che l’umanità ha vissuto e che dovrebbe aver imparato.

 

Ti conosciamo soprattutto come attrice. Ci regalerai nuove interpretazioni?

 

 Per me la scrittura è una maturazione professionale. Quando mi chiudo nel mio studio a scrivere, divento regista, attore, sceneggiatore, provo delle emozioni che mi danno oggi una soddisfazione maggiore rispetto al cinema. Vedo difficile un ritorno sugli schermi, anche se, mai dire mai….

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(Maggie S.Lorelli  www.lavocedinewyork.com)

 

 

LE SORPRESE DI UN GRANDE SCRITTORE

 

La pittura di Jack Kerouac vive ancora nella Svizzera italiana. Le sue opere sono custodite da due galleristi

di Eduardo Simantob  - SWI Swissinfo

 

Arminio Sciolli vide per la prima volta un lotto di dipinti di Jack Kerouac a una fiera del libro a Milano quindici anni fa. Chiese se qualcuno di essi fosse in vendita. Gli risposero di sì, ma che erano stati riservati dall'attore americano Johnny Depp.

 

Tuttavia, con la crisi finanziaria del 2008, Depp rinunciò ad acquistarli. E così Arminio, che è un avvocato, gallerista e collezionista d'arte del canton Ticino, si offrì insieme al fratello Paolo di comprare l'intera collezione di 100 dipinti e disegni più alcuni cimeli: abiti, scarpe da ginnastica, una scatola di pastelli e un registratore a cassetta con i nastri delle conversazioni che Kerouac usò in libri come Visioni di Cody.

 

Parte della collezione è stata esposta nel 2016 nell'ambito di una mostra celebrativa sulla Beat Generation al Centre Pompidou di Parigi. Tre anni dopo, la collezione di Kerouac è stata protagonista di una monografica a Milano, accompagnata da un catalogo che ha finalmente portato alla luce un lato poco conosciuto di uno dei più influenti scrittori nordamericani del XX secolo.

 

Kerouac ascese al pantheon della letteratura americana, e al consenso mondiale, soltanto dopo aver stracciato insieme ai suoi compagni beat le convenzioni e il decoro del mondo letterario. Per gran parte della sua vita fu un invece un outsider, una figura marginale e disprezzata da gran parte dell'establishment letterario. Truman Capote espresse quello che è forse il più noto giudizio, a proposito del romanzo Sulla strada (1957): "Questo non è scrivere, è battere a macchina". L'autore gli replicò con un dipinto (non proprio lusinghiero).

 

Quanto ai disegni e quadri di Kerouac, il loro valore non può essere misurato solo su basi estetiche. Come osservano i curatori italiani Sandrina Bandera, Alessandro Castiglioni ed Emma Zanella nell'introduzione al catalogo della mostra, non si possono esaminare queste opere con il metro tradizionale della critica d'arte. Kerouac sentiva il bisogno di trasmettere idee e sentimenti attraverso un ventaglio di strumenti e visioni, considerando l'espressione artistica nella sua totalità.

 

In effetti, è difficile valutare singolarmente le opere pittoriche di Kerouac. Spaziano da olii su tela a schizzi a matita su tovaglioli, e sono influenzate dal surrealismo e dall'espressionismo astratto che erano di tendenza nella scena artistica newyorchese degli anni 1950.

 

I soggetti variano da ritratti di amici e amanti a riflessioni sulla religione (i traumi del cattolicesimo e la presunta redenzione attraverso la meditazione buddista, nonché lo sviluppo della sua personalità di "mistico pazzo"). Kerouac, inoltre, dipingeva allo stesso modo in cui scriveva: istintivo e rapito, senza disegni preparatori o progetti.

 

Scrisse persino una sorta di manifesto personale, datato 1959, che inquadra la sua pittura. "Usa il pennello in maniera spontanea, ossia senza disegnare, senza lunghe pause o ritardi, senza mai cancellare… accumula", scrisse, precisando: "Fermati quando vuoi 'migliorare': è fatta".

 

Complementi visivi alla parola scritta

Accanto ai suoi scritti e alla storia della sua vita, l'arte figurativa di Kerouac è un terzo asse per capire la profondità della sua ricerca esistenziale e della produzione letteraria. I suoi libri erano sostanzialmente romanzi a chiave -storie di vita reale presentate come finzione- nei quali cercava di narrare l'energia e le preoccupazioni di un gruppetto di poeti erranti che vagavano per l'America appena dopo la seconda guerra mondiale.

 

Kerouac, con lo scrittore William S. Burroughs e il poeta Allen Ginsberg, formava una sorta di trinità della cosiddetta Beat Generation.

Attorno a loro ruotavano molti altri artisti e poeti (non necessariamente di minore talento), ma queste tre personalità distinte, insieme, riassumevano le problematiche sociali (razzismo, omofobia, ambiente), gli stili letterari liberi e provocatori, e le diverse forme di ricerca esistenziale che i beatnik affrontavano con orrore dei valori americani puritani, e la gioia di una giovane generazione che si apprestava a squarciare quei valori nei movimenti di controcultura degli anni Sessanta.

 

Nato nel 1922 a Lowell, Massachussets, in una famiglia franco-canadese, Jean-Louis Lebris de Kerouac iniziò a studiare inglese soltanto all'età di sei anni: la principale lingua parlata a casa era il francese. Ciononostante fu, almeno tra gli esponenti principali del movimento beat, uno dei più influenzati dalle tradizioni e la cultura degli Stati Uniti d'America.

 

"Kerouac cercava l'America di Walt Whitman [poeta del XIX secolo], un'America che non esisteva più neppure ai tempi dei suoi primi viaggi", disse William S. Burroughs in un'intervista del 1994.

Tuttavia, per quanto la sua attenzione fosse attirata da una certa immagine dell'America, le sue influenze erano piuttosto ampie e globali.

 

Influenzati dalle ampie conoscenze di Burroughs, Ginsberg e Kerouac presero ispirazione da molte fonti, quali i poeti francesi Baudelaire, Verlaine e Rimbaud, esponenti del modernismo europeo come Kafka, Céline, Joyce ed Ezra Pound, nonché la prima psicanalisi (Carl Gustav Jung, Sigmund Freud, Wilhelm Reich), le riviste pulp e la cultura afro-americana e latina.

 

In seguito, avrebbero esplorato anche la cultura orientale e le tematiche arabe nel corso di viaggi in Paesi come la Colombia, il Marocco e l'India, ma anche i meandri più remoti della psiche, attraverso la sperimentazione di droghe e la sessualità. Al contrario di Burroughs e Ginsberg, Kerouac era eterosessuale, ma sosteneva l'outing dei suoi amici.

 

I beat esibivano apertamente la loro omosessualità, con l'intento di impressionare ma anche di rendere normali certi atteggiamenti. Erano gli albori del movimento di liberazione gay della fine degli anni Sessanta.

 

Progetti in sospeso

I viaggi di Kerouac narrati in Sulla strada risalgono al 1947-48 e il manoscritto, un rotolo di carta da telex di 36 metri, fu steso praticamente senza sosta nel corso di tre settimane sotto effetto di benzedrina.

 

Il manoscritto divenne un iconico oggetto d'arte, esposto in vari musei di tutto il mondo, e il pezzo forte di una mostra progettata dal regista teatrale e artista figurativo statunitense Robert Wilson, ispirato dalla scoperta dei dipinti di Kerouac.

 

Il progetto, che include delle canzoni originali composte da Tom WaitsLink esterno (un altro estimatore di lunga data di Kerouac), fatica a trovare luoghi appropriati. "Serve una stanza lunga almeno 40 metri", conferma Paolo Sciolli. "Neppure i grandi musei possono offrire così tanto spazio".

 

I dipinti di Kerouac hanno ispirato anche un altro famoso artista rappresentato da Il Rivellino, la galleria d'arte e centro culturale dei fratelli Sciolli a Locarno. Il regista e artista multimediale Peter Greenaway ha disegnato opere d'arte basate sulla vita di Kerouac. Disegni e scritti appesi ai muri della villa di Arminio Sciolli in un piccolo villaggio della Svizzera italiana.

 

I suggestivi e tranquilli dintorni dell'abitazione ricordano poco i tempi e i luoghi vivaci amati da Kerouac. Ma i fratelli Sciolli confidano che l'interesse planetario per lo scrittore, mai cessato dopo la sua morte a 47 anni nel 1969, neppure si affievolisca.

 

Un ulteriore impulso lo hanno dato di recente due lavori giovanili inediti datati 1951-52 e scritti in francese (La nuit est ma femme e Sur le chemin), pubblicati nel 2016 in lingua originale e tradotti in inglese.

I fratelli vorrebbero vedere la loro collezione viaggiare per il mondo e far conoscere questo lato artistico di Kerouac pressoché ignoto. 

 

Mentre attende proposte concrete per realizzare un'esposizione, Paolo Sciolli vaglia le offerte che continua a ricevere. "Spesso mi chiedono di vendere questo o quest'altro dipinto, separatamente, ma ho paura di disperdere la collezione", spiega.

 

È difficile, peraltro, quotare i quadri di Kerouac. Sciolli svela che l'intero lotto è assicurato per qualche milione di dollari, ma sa anche che rischia di perdere valore qualora le opere fossero vendute singolarmente. Nelle sue mani, la collezione rimane integra.

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(Eduardo Simantob  SWI Swissinfo.ch - A cura di Mark Livingston e Geraldine Wong Sak Hoi)

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A VILLA MEDICI

 

 

Un secolo di storia dell’Orient-Express. In mostra a Roma foto, disegni e oggetti di un treno divenuto leggenda

di Enrico Lepri

 

ROMA - L’Accademia di Francia a Roma – Villa Medici ospiterà fino al 21 maggio 2023 la mostra ‘ORIENT-EXPRESS & Cie. Itinerario di un mito moderno’ che attraversa quasi un secolo di storia e fascino di un treno leggendario. La mostra, curata da Eva Gravayat e Arthur Mettetal, proporrà oltre 200 opere e fotografie provenienti dagli archivi dell’antica Compagnie internationale des wagons-lits (CIWL).

 

Raccolte fotografiche, progetti, mappe, disegni tecnici e manifesti pubblicitari d’epoca, per raccontare la storia dell’Orient-Express, oggetto tecnico divenuto icona culturale, che ha cristallizzato una moltitudine di narrazioni e rappresentazioni basate su fatti reali o inventati. Benché la maggior parte delle fotografie sia anonima, alcune sono firmate da celebri studi quali Paul Nadar, Albert Chevojon e Sébah & Joaillier. Oltre al mito, la mostra racconterà anche l’ingegneria di un treno di lusso resa possibile da una straordinaria rete di imprese e servizi (lavanderie, ebanisterie, calderai, ecc.).

 

Prima di diventare oggetto letterario e cinematografico, l’Orient-Express è stato il primo di una serie di treni di lusso internazionali, creato dalla Compagnie internationale des wagons-lits. L’Orient-Express è stato operativo dal 1883 al 1977 e ha permesso di collegare Parigi a Costantinopoli, l’odierna Istanbul. La sua creazione fu un tour de force diplomatico ed economico in un’epoca in cui la ferrovia era usata come strumento al servizio del potere politico da parte di imperi e stati.

 

La mostra, coprodotta dal Fonds de dotation Orient-Express e dal festival Rencontres d’Arles, dedicherà una sezione a un altro treno prestigioso della Compagnie des wagons-lits: il Rome-Express, entrato in servizio nel dicembre del 1883 e che percorreva i 1.446 chilometri che separano Parigi da Roma costeggiando prima la Riviera francese poi le Riviere italiane di Ponente e di Levante.

 

Tra le curiosità, un lavoro inedito della fotografa francese Sarah Moon che ha viaggiato sulle orme dell’Orient-Express in diverse occasioni, ripercorrendone i percorsi reali e immaginari, e una docu-fiction sonora sul Rome-Express di Mathias Enard, scrittore e vincitore del premio Goncourt nel 2015 per il suo libro Boussole (Actes Sud) e borsista a Villa Medici nel 2005-2006, in collaborazione con France Culture.

 

I documenti d’archivio presentati alla mostra provengono dal Fonds de dotation Orient-Express, dalla Collection Pierre de Gigord Paris, dal Fonds SNCF, SARDO, Centre National des Archives Historiques, dal Ministero della Cultura francese, Médiathèque de l’architecture et du patrimoine e dalla Fondazione FS Italiane.

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I GRANDI VINI E LA BUONA CUCINA

Ornellaia, la Vendemmia d’Artista celebra la “Proporzione”, edizione limitata che interpreta l’annata 2020. All’asta a settembre.  

di Paola Jadeluca

 

ROMA - L’asta si terrà il prossimo settembre, ma già c’è grande attesa per gli esemplari di Ornellaia Vendemmia d’Artista, ovvero le bottiglie della casata Frescobaldi dell’annata 2020 con un’etichetta d’autore, firmata quest’anno dall'artista americano Joseph Kosuth. Dal 2009, con l’uscita del millesimo 2006, la casata toscana riserva una produzione limitata a un progetto artistico dedicata alla personalità dell’annata stessa, che quest’anno celebra “La Proporzione”.

 

Lo scorso anno era stato il “Vigore” a caratterizzare l’annata e l’edizione d’artista, battuta da Sotheby’s online, ha realizzato 302 mila dollari. Ricavato devoluto in beneficienza alla Fondazione Solomon R.Guggenheim per il progetto Mind’s Eye, pensato per permettere la fruizione dell’arte ai non vedenti. Un programma di collaborazione tra la casata toscana e il museo americano che va avanti da diversi anni per consentire l’accessibilità all’arte attraverso l’uso dei sensi e che finora ha totalizzato una donazione complessiva di 2 milioni e 302mila dollari.

 

Perché la Proporzione. “Il 2020  ha saputo trasmettere al vino le giuste caratteristiche di ogni vitigno - ha spiegato il direttore Heinz nel corso di una conferenza video mondiale-  una cuvée di Cabernet Sauvignon, Merlot, Cabernet Franc e Petit Verdot in perfetto rapporto tra loro.

 

Joseph Kosuth è considerato uno dei massimi esperti e teorici dell’arte concettuale e ha incentrato la sua interpretazione della Proporzione sulla parola "vino": sull’etichetta ha creato un albero genealogico delle lingue, ispirato dalla quercia di Bellaria, simbolo della tenuta di Ornellaia a Bolgheri (Livorno) con la traduzione della parola vino in tutte le lingue che derivano dalla radice indoeuropea. Una citazione di Vitruvio completa l’opera. Un progetto in evoluzione che parte dal disegno per l'etichetta da 750 ml, prosegue nelle opere realizzate per i grandi formati, fino all'opera site-specific progettata per la tenuta.

 

Orneallaia è tra le etichette blasonate al top nel Liv-ex, il mercato secondario dei Fine Wine, tra quelle che tengono alte le quotazioni di mercato del LIv-ex Italy 100. Dall'inizio del 2015 l'indice Ornellaia, che traccia l'andamento dei prezzi delle dieci annate più recenti, è salito del 75,6%, il prezzo medio per cassa viaggia attorno alle 1.841 sterline. I collezionisti si contendono questa etichetta, quando si tratta di aste particolari come quella dedicata alle edizioni limitate Vendemmia d’Artista le quotazioni lievitano.

 

Per quanto riguarda il vino. L’annata Ornellaia 2020 Bolgheri Superiore Doc Rosso, si tratta di un vino prodotto da un cuvée di Cabernet Sauvignon, Merlot, Cabernet Franc e Petit Verdot. Varietà combinate ogni anno in percentuali diverse a seconda delle differenti caratteristiche della vendemmia. Un blend che viene individuato solo attraverso i ripetuti assaggi delle diverse varietà e delle differenti combinazioni. Assaggi effettuati ogni anno da Axel Heinz, direttore di Tenuta e dal suo team tecnico guidato dall'enologo Olga Fusari.

 

«Nel caso di Ornellaia 2020 – ha spiegato Axel Heinz - sono state necessarie più sessioni di assaggio per individuare l'assemblaggio giusto che è sempre diverso. Non si tratta certo di una scienza esatta”. L’annata è stata punteggiata da freddo e pioggia alternati a lunghi periodi di siccità e caldo. Dopo un’estate quasi perfetta, c'è stato un abbassamento della temperatura a fine settembre “che ha portato a vini di grande finezza e ricchezza aromatica. Ornellaia 2020 è ben strutturato, riempie il palato con la sua trama tannica densa ed elegante e sul finale è persistente e lascia una splendida freschezza”.

Dall’opera della natura, all’opera dell’uomo: «La proporzione non è solo l’equilibrio degli elementi per l’occhio –  ha detto Kosuth - ma è anche un equilibrio di tutti gli elementi che la rendono un’entità di perfezione di ciò che significa per il mondo, formandola così anche come concezione».

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(Paola Jadeluca giornalista di Repubblica per oltre 30 anni, curatrice del settimanale Affari & Finanza, esperta, tra l'altro, di vini e cucine)